Pubblicato il 15 Settembre 2013 | di Andrea G.G. Parasiliti
0La parola come dono
«Se è vero il principio della filologia secondo il quale uno scritto quanto più si diffonde più si corrompe, allora bisognerà focalizzarsi parecchio sul problema dell’autorità del testo…» Inizia così il mio pomeriggio con Giuseppe Frasso, professore di filologia italiana all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dal quale mi sono recato per parlare della prospettive culturali dell’editoria digitale a partire dalla parola…
In che modo l’editoria digitale può donarsi agli studi umanistici?
«Basti già pensare agli studi sulle “concordanze”… In questi giorni stiamo dando vita a una rivista digitale di filologia, che si chiama StEFI ovvero Studi di Erudizione e Filologia Italiana. Ma proprio partendo dal rapporto digitale-filologia, esistono già esperimenti consolidati a partire dagli studi di Roberto Busa, sulle “concordanze” in san Tommaso ad esempio…»
Già, non si tratta forse del famoso progetto di Gallarate, tanto apprezzato da Paolo VI, che diceva che stavamo assistendo ad “un prodigio: il cervello meccanico al servizio del cervello spirituale?”
«È proprio quello il contesto… E se pensiamo al mondo romano, la priorità viene sempre data alla funzionalità del supporto… La parola sta al centro, per cui poco cambiava se si srotolava o si sfogliava…»
La relazionalità dell’editoria, ma anzitutto della parola, sorprende. Nel contesto digitale può essere donata anche a chi è sempre stato escluso da questo mondo, pensiamo agli ipovedenti, ai sordomuti… L’editoria digitale dovrà puntare soprattutto all’accessibilità della cultura…
«Certo! Perché la parola va vissuta come dono. A tal proposito mi viene in mente una storia tramandataci dal grande Gianfranco Contini. Orbene, negli anni di Friburgo, il filologo italiano, divenne amico di Emilé Benveniste, noto linguista strutturalista nato ad Aleppo e quindi di origine siriana. Contini aveva notato che tutti i giorni Benveniste, intorno all’una e mezza spariva. Un bel giorno, incuriosito gli chiese dove andasse… Alché il linguista siriano gli confessa: «C’è un bambino siriano che vive da queste parti e che sta dimenticando la sua lingua… Ogni giorno ci vediamo cosicché io possa restituirgliela…» Vede, lo studioso della parola che restituisce la parola al bambino.
Quanto è urgente la filologia al giorno d’oggi?
«Mai nulla come la civiltà telematica ha fatto esplodere l’emergenza “parola”. E se è vero che il mezzo è il messaggio, come diceva McLuhan, è anche vero che alla volatilità del supporto digitale corrisponde una pur qualche eternità della parola elettronica. Ecco dunque la necessità di un operatore del mondo digitale che abbia una piena sensibilità umanistica, che percepisca la necessità della collaborazione con esperti di altri settori. Può essere utile, al fine di sensibilizzarci al tema, guardare anche all’esperienza, seppur estrema, degli strutturalisti francesi, i quali credevano che “noi siamo la nostra parola”. Ma d’altra parte anche l’esperienza nomina. Infine vi è anche un altro aspetto da tenere in conto: il problema della verità storica… Se già il mondo della letteratura è stato invaso da falsi storici (e pensiamo ai protocolli dei Savi di Siòn, ai diari di Hitler e di Mussolini, alla donazione di Costantino) oggi questo problema è tornato alla ribalta con ancora maggiore urgenza. La responsabilità dell’uomo è incrementata. Non dovrà sorprenderci se spunteranno anche nuove figure lavorative che andranno in tal senso, un’authority del testo digitale.»
Le parole sono pietre, come lei ci insegna…
«La pulizia della parola è una necessità assoluta. Gli esempi più eclatanti vengono dalle religioni con Testi Sacri. Ma vi è anche un’altra faccia della parola, altrettanto sacra: Quella della parola non detta, del silenzio… Il non parlare, il non proferir parola, che è sempre alla base dell’ingiustizia, della criminalità, della mafia. Anche per questo le parole sono pietre».