Società

Pubblicato il 18 Febbraio 2014 | di Andrea G.G. Parasiliti

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Fra Turchia, Nuovo Mediterraneo e Sicilia

Ci sentiamo spesso su Skype, anche se al momento viviamo molto distanti: io a Milano e lui a Istanbul. Cinque anni di vita quotidiana in collegio, all’Augustinianum, dal settembre del 2007 in poi, non sono affatto pochi. Fatto sta che con Simone Tagliapietra, originario di Feltre, in provincia di Belluno, accanto all’Austria, diventammo amici lo stesso giorno in cui io arrivai a Milano da Ragusa, tramite un treno che ci mise almeno 18 ore.

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Simone, laureato in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali, è un ricercatore della Fondazione Eni Enrico Mattei e da settembre vive a Istanbul, dove svolge le sue ricerche presso il centro studi dell’Università Sabanci parallelamente all’attività di dottorato di ricerca in Università Cattolica. La sua ultima fatica risale al novembre del 2013: un volume pubblicato dalla casa editrice olandese Claeys & Casteels nella collana «European Energy Studies» dal titolo: The Globalization of Natural Gas Markets: New Challenges and Opportunities for Europe ovvero La globalizzazione dei mercati del gas naturale: Nuove Sfide e Opportunità per l’Europa. Nel suo libro precedente, focalizzato sugli investimenti in energie rinnovabili nell’area del Nord Africa e del Medio Oriente, compaio invece tra i dedicatari.

In questi ultimi mesi abbiamo avuto più e più volte l’occasione di parlare della Turchia, del Mediterraneo e dell’Europa. Così facendo, ci divertivamo ad evidenziare una lunga serie di consonanze fra Venezia, la Sicilia e il Vicino Oriente. A Chiaramonte Gulfi se lo ricordano bene il fatto che la Madonna di Gulfi viene da Bisanzio, da Costantinopoli, da Istanbul. Quando Simone partì per la Turchia gli regalai infatti Il lupo e la luna, del nostro Buttafuoco, che non a caso, è un cuntu che narra la storia, a cavallo fra Cinque e Seicento, di Scipione Cicala, un giovane nobile messinese, sottratto al padre, il visconte Cicala e portato in dono al Sultano e lì educato e destinato a diventare il comandante dell’esercito Ottomano, di terra e di mare.

L’altro giorno, incuriosito dai giornali e dai suoi soliti racconti di vita quotidiana sul Bosforo, gli chiesi che cosa stesse succedendo in Turchia…

 

«La Turchia sta attraversando uno dei periodi più complessi della sua storia repubblicana. Il Paese si trova, infatti, sull’orlo di un profondo conflitto istituzionale, la cui motivazione di fondo si può individuare nel processo di mutamento del carattere secolare della Repubblica di Turchia attuato negli ultimi dieci anni dall’attuale governo guidato da Recep Tayip Erdogan. Un processo finalizzato a modificare i caratteri fondamentali della Repubblica, cosi come disegnati da Ataturk, Padre dei turchi, salvatore della Patria all’indomani del collasso dell’Impero Ottomano e ancor oggi punto di riferimento morale imprescindibile per la grande maggioranza dei turchi. Nel concetto di Ataturk la Turchia doveva essere un Paese secolare, dove la religione fosse limitata alla sfera privata e non a quella politica, nonostante la quasi totalità dei turchi pratichi la religione musulmana. Tale ordine secolare -caso del tutto unico nel mondo musulmano- ha sempre perdurato sino a oggi anche grazie al vigile controllo dei militari, designati -non a caso- dallo stesso Ataturk quali guardiani dell’ordine secolare. Negli ultimi dieci anni questo stato di cose è, progressivamente, cambiato. Il governo di Erdogan, forte della grande espansione economica sperimentata dal Paese, ha progressivamente posto in essere delle misure rivolte a modificare l’impianto secolare del Paese, estromettendo dapprima i militari dal loro ruolo di guardiani della secolarizzazione, e successivamente ponendo in essere delle misure volte ad “islamizzare” la società turca. Le violente proteste di piazza alle quali la Turchia ci sta abituando dalla rivolta di Gezi Park non vanno dunque lette solamente in riferimento a degli scandali contingenti (come quello di abbattere l’ultimo parco rimasto in centro città, oppure come quello più recente riguardante un’enorme caso di corruzione tra i membri del governo), bensì in riferimento al più profondo tentativo di estirpare le radici secolari dell’albero piantato da Ataturk nel 1923».

 

Perché la Turchia è cosi importante per noi europei?

La Turchia è Europa, ma la Turchia è Asia. La Turchia è musulmana, ma la Turchia è laica. La Turchia è Occidente, ma la Turchia è Oriente. Direi che sono queste apparenti contraddizioni a rendere peculiare, e importante, questo Paese agli occhi dell’Europa e di tutto l’Occidente

«La Turchia ha un grande rilievo per l’Unione Europea, anzitutto per la sua posizione geografica: essa rappresenta, infatti, il ponte fisico e culturale tra Oriente e Occidente; un ponte sul quale correva la Via della seta, un passaggio obbligato per giungere nella Cina di Matteo Ricci e di Marco Polo. E di questo “ponte” Istanbul ne è sicuramente il centro e la più grande espressione. L’attuale quartiere di Beyoğlu era il vecchio quartiere di Pera, dove nei secoli sono sempre vissuti i veneziani e i genovesi che a Istanbul mantenevano un avamposto strategico per i loro commerci.

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La torre di Galata fu costruita dai genovesi all’interno di un sistema di fortificazione della città per controllare il traffico mercantile sul Corno d’Oro, quel braccio d’acqua che dal Bosforo entra nella parte europea di Istanbul, inerpicandosi tra le due sponde che per secoli rappresentarono il centro dei commerci e della vita della città.Quel Corno d’Oro le cui due sponde sono congiunte dal Ponte di Galata, abbozzato per la prima volta da Leonardo da Vinci e poi distrutto e ricostruito per ben quattro volte, a cui il premio nobel Orhan Pamuk si riferisce come al vero cuore pulsante di Istanbul. Istanbul è il Ponte di Galata, è il Corno d’Oro, ma è soprattutto il Bosforo; canale d’acqua che divide due continenti, Europa e Asia, per secoli lusinga degli Zar delle Russie, che in esso vedevano la vera ed unica chiave per il loro incontrastato dominio sul Mediterraneo. La Turchia è Europa, ma la Turchia è Asia. La Turchia è musulmana, ma la Turchia è laica. La Turchia è Occidente, ma la Turchia è Oriente. Direi che sono queste apparenti contraddizioni a rendere peculiare, e importante, questo Paese agli occhi dell’Europa e di tutto l’Occidente».

 

Qualche tempo fa si parlava della Turchia come modello per il nuovo Mediterraneo, dove con «nuovo Mediterraneo» si intende quello che si è andato disegnando all’indomani della Primavera araba. Cos’è successo invece?

 

«In Occidente si guardava al modello turco (cioè di un Paese laico seppur a maggioranza musulmana) come ad un modello applicabile alle nuove realtà emergenti dalla cosiddetta Primavera araba. Le cose sono chiaramente andate in modo ben diverso. Quest’idea era, infatti, del tutto infondata in quanto le caratteristiche della Turchia (che, come abbiamo detto, risalgono al 1923) non sono oggi riproducibili in nessun altro Paese della regione. Detto questo, nella prima fase della Primavera araba la Turchia aveva certamente un grande potenziale per rafforzare i propri interessi commerciali nell’area del Nord Africa. Un potenziale che è tuttavia andato sprecato sia per via di una serie di errori nella politica estera di Erdogan che per via del continuo cambiamento di regimi, tendenza chiaramente esemplificata dal caso dell’Egitto, Paese in cui dopo la caduta di Mubarak salirono al governo i Fratelli Musulmani, appoggiati tra l’altro proprio dalla Turchia, poi prontamente destituiti da un colpo di stato attuato dai militari».

 

Qual è, di fatto, il nuovo Mediterraneo?

«Il Mediterraneo emerso dalla cosiddetta Primavera araba (dico cosiddetta perché la primavera è presto divenuta, tristemente, autunno inoltrato) è fondamentalmente un mare tumultuoso che stenta ancora a ritrovare un suo equilibrio. Venuti meno i padri-padroni dei Paesi del Nord Africa, non si è potuto gestire un processo democratico semplicemente perché la democrazia non si può imporre dall’oggi al domani e, inoltre, perché la stessa struttura istituzionale di quei Paesi non era in grado di gestire tale novità. Per questo motivo ci ritroviamo oggi, a tre anni dalla Primavera araba, ad avere un Egitto guidato dai militari, una Libia frammentata in tante Libie, una Tunisia che stenta a trovare un equilibrio e una Siria in cui continua a imperversare, nel disinteresse dell’Occidente, una delle più cruente guerre civili della storia recente».

 

In questa situazione di grande incertezza quale può essere il ruolo dell’Europa?

 Le due sponde del Mediterraneo presentano molti elementi di complementarietà legati all’energia, all’industria, al mercato del lavoro, al tema dell’immigrazione e via dicendo. L’Europa dovrebbe cercare di rafforzare la cooperazione economica nell’area del Mediterraneo

«L’Europa, dalla Primavera araba, avrebbe potuto trarre una grande opportunità per accrescere il proprio ruolo nel Mediterraneo. Questa opportunità è andata persa, perché non si è riusciti ad avere un approccio unitario e coeso nelle questioni riguardanti gli sviluppi nella regione. Per rimediare a questa mancanza, l’Europa dovrebbe rimettere subito al centro delle proprie priorità di politica estera l’area del Mediterraneo, sviluppando in questa regione un progetto strategico di lungo periodo. Le due sponde del Mediterraneo presentano molti elementi di complementarietà legati all’energia, all’industria, al mercato del lavoro, al tema dell’immigrazione e via dicendo. L’Europa dovrebbe cercare di rafforzare la cooperazione economica nell’area del Mediterraneo (e, in questo senso, l’energia può certamente giocare un ruolo di primaria importanza), con l’idea che tale cooperazione può portare a un rafforzamento dei rapporti sociali e politici dell’intera area. Bisogna però iniziare a ragionare in un’ottica funzionalista, Paese per Paese, su settori concreti, creando cooperazioni di fatto. Gli Stati sono come le persone: Si muovono verso gli altri solo quando c’è un interesse reciproco. Ebbene, nell’area del Mediterraneo, per esempio, l’energia ha un ruolo fondamentale. Libia e Algeria sono collegate all’Italia da delle pipelines, dei gasdotti, che rappresentano dei mezzi per creare partnership di lungo periodo per la cooperazione fra questi Paesi. Partendo da questi legali forti e agendo in modo concreto si può cercare di avere delle ricadute, degli spillover positivi, che portino ad una più rafforzata cooperazione economica e sociale.

Certamente non possiamo aspettarci che tali input giunga da Berlino o da Londra…è l’Italia stessa che dovrebbe farsi carico di portare avanti, in sede europea, tale visione. Il semestre di Presidenza dell’Unione Europea che l’Italia si appresta ad assumere può certamente essere il momento migliore per riportare il Mediterraneo al centro dell’attenzione».

 

Parlami della mia Sicilia. Lei che sta lì nel mezzo di ogni storia… Potrebbe avere un qualche ruolo?

 

«La strategia di cui parlavo necessita di concretezza, di persone che si impegnino alla sua realizzazione…in poche parole vi sarebbe bisogno di creare un’istituzione che si occupi realmente, giorno per giorno, di portare avanti questa visione. Ebbene, se l’Italia si facesse promotrice e guida di una nuova strategia per il Mediterraneo, la Sicilia sarebbe la miglior candidata a divenire sede di un’istituzione Euro-mediterranea finalizzata al rafforzamento della cooperazione economica e sociale della regione. Quest’idea non si basa solo sulla chiara centralità geografica della Sicilia nel Mediterraneo, ma anche e soprattutto nella sua centralità culturale e la Madonna di Gulfi di cui parlavamo all’inizio è un bellissimo esempio di come la Sicilia sia la culla del Mediterraneo. La Sicilia dovrebbe essere il cardine di una nuova iniziativa Euro-mediterranea, ricordando che qualsiasi sforzo di cooperazione economica e sociale serve, in ultima istanza, a cercare di dare un futuro a tutte quelle persone che oggi sono costrette a lasciare i loro Paesi per cercare fortuna altrove, affidandosi alle acque -troppo spesso omicide- del Mediterraneo».

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Autore

(Ragusa, 1988). Post-doctoral Fellow della University of Toronto si è laureato in Filologia Moderna all’Università Cattolica di Milano e ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università degli Studi di Catania. Collaboratore del Centro di Ricerca Europeo Libro Editoria Biblioteca della Cattolica di Milano (CRELEB) e, nel 2018, del PRISMES (Langues, Textes, Arts et Cultures du Monde anglophone) dell’Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3, si occupa di Libri d’artista e Letteratura Futurista, Disability Studies e Food Studies. Fra le sue pubblicazioni: Dalla parte del lettore: Diceria dell’untore fra esegesi e ebook, Baglieri (Vittoria, 2012); La totalità della parola. Origini e prospettive culturali dell’editoria digitale, Baglieri (Vittoria, 2014); Io siamo già in troppi, libro d’artista di poesie plastiche plastificate galleggianti per il Global Warming, KreativaMente (Ragusa, 2020); Ultima notte in Derbylius, Babbomorto editore (Imola, 2020); All’ombra del vulcano. Il Futurismo in Sicilia e l’Etna di Marinetti, Olschki (Firenze, 2020). Curatore del volume Le Carte e le Pagine. Fonti per lo studio dell’editoria novecentesca, Unicopli (Milano 2017), ha tradotto per il CRELEB le Nuove osservazioni sull’attività scrittoria nel Vicino Oriente antico di Scott B. Noegel (Milano, 2014). Ha pubblicato un racconto dal titolo Odisseo, all’interno della silloge su letteratura e disabilità La mia storia ti appartiene, Edizioni progetto cultura (Roma 2014). Come giornalista pubblicista, ha scritto per il «Corriere canadese» (Toronto), «El boletin. Club giuliano dalmato» (Toronto), «Civiltà delle macchine» (Roma), l’«Intellettuale Dissidente» (Roma), «Torquemada» (Milano), «Emergenze» (Perugia), «Operaincerta» (Modica), e «Insieme» (Ragusa) dal gennaio del 2010.



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