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Pubblicato il 26 Febbraio 2014 | di Lettera in Redazione

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Renzi e la sindrome da leone

Nella savana africana oltre a dover cominciare a correre già dalle prime luci dell’alba, a prescindere di essere leone o gazzella, esistono altre regole che celebrano la madre natura nella sua logica di sopravvivenza della specie.

Ogni branco di leoni vive e caccia in un suo territorio rispettando precise regole di comportamento accettate da tutti i componenti il branco; due su tutte le femmine altre al delicato compito riferito all’incremento demografico sono chiamate alla caccia ed “all’attesa” che il capo branco si sazi e consenta, quindi, agli altri di mangiare. Certo, il tutto un po’ maschilista ma a suo favore rimane che ha a che fare e difendere tante femmine ed altrettanti cuccioli ed allora la suddetta preferenza non appare molto strana; deve essere forte specie quando deve vedersela con i giovani maschi rivali che ne insidiano il posto. Accade sempre che il vecchio capo venga sconfitto dal giovane che conquista il branco e, per prima cosa, va in cerca dei piccoli e li uccide.

Dicono gli esperti, ma è facile credergli, che il giovane Re della foresta uccide i piccoli delle femmine del suo nuovo branco perché in questo caso le leonesse, senza cuccioli, entrano in calore ed il giovane capo può trasferire i suoi geni migliorando la specie.

Osservando quanto accade in politica, mi è venuta in mente questa storia che ognuno può arricchire per come vuole.

Vorrei premettere che non mi sento e non sono un “politologo”. Come tutti i giovani dei miei trascorsi tempi, anch’io ho avvertito lo stimolo della politica, subito il fascino dei partiti, vissuto momenti di euforia per la vincita di questa o quella battaglia elettorale insieme a quelli meno belli delle sconfitte dei tuoi leader, vissute come se fossero le tue. Si gioiva meno di quanto si penasse, forse perché avvertivi una responsabilità maggiore nelle sconfitte, come se tu avresti potuto fare di più e non lo avevi fatto.

Erano momenti, quelli dei primi anni cinquanta, in cui l’Italia viveva il suo momento magico della ripresa economica e con essa il aociale, fortemente rappresentato dai partiti di allora, che muoveva importanti passi di crescita ed affermazione di valori come la famiglia ed il rispetto della persona.

La Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista Italiano insieme ad altri partiti più piccoli schierati, a seconda della opportunità marginale, governavano territori che di riflesso venivano definite “bianche” o “rosse”. Anche allora esistevano le liste civiche, così definite perché appunto erano presenti nei comuni, all’inizio i più piccoli, nei quali il contestatore di turno scioglieva un simbolo e con esso “correva” per la conquista del Consiglio Comunale.

È trascorso più di mezzo secolo e non possiamo dire che le cose siano cambiate di molto; come si usa dire in queste occasioni si registra una certa “evoluzione” solo delle modalità attuative nel senso che in particolare le liste civiche sono divenute sempre più movimenti ma non si è modificato il senso di dissenso nei confronti dei più forti delle organizzazioni partitiche all’interno delle quali si soffre la tirannia dei leader. È un fiorire di nuove aggregazioni vere e proprie cartine al tornasole che esprimono la necessità di autonomia dal padrone politico di turno con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. È veramente triste assistere a tracolli annunciati di Presidenti della Regione che hanno contestato le forze politiche che li avevano eletti, così come anche a quei bravi sindaci che venivano osannati nei loro comuni e poi, tutto ad un tratto, rimasti accecati da poltrone di Palazzo d’Orleans e per questo transitati in aggregazioni politiche provvisorie che rischiano di trascinarli, per l’appunto nel vortice della provvisorietà; come se non conoscessero una buona parte della sicula storia della politica, da Finocchiaro Aprile, passando dagli uscocchiani di Silvio Milazzo, per finire, aggiungerei miseramente a Raffaele Lombardo; salvo a tornare a fare i sindaci, se ancora saranno graditi!

Per qualche ritorno eccellente di questi ultimi giorni a miseri tonfi, senza possibilità di sopravvivenza, di affermate personalità politiche o di magistrati che, avrebbe scritto il sommo padre Dante, avrebbero perso “il ben dello intelletto”.

Ma è proprio di questi giorni che, ancora una volta la politica siciliana si distingue e riesce a vedere al di là della sua punta del proprio naso: il cuperliano Raciti stravince sul renziano Lupo.

È un segnale che la dice lunga sul gradimento della trattativa tra Berlusconi e Renzi e sulla riforma elettorale che ne potrà derivare. Migliore cortesia al vecchio e debole leone forzista non poteva fare il giovane Renzi che, dobbiamo riconoscere, è stato bravo ad assorbire la sconfitta del primo combattimento ma è tornato a sfidare il capo branco che intanto si era ulteriormente indebolito.

I piddini siciliani hanno capito e dimostrato di non gradire i geni renziani anche se, forse, sarà troppo tardi.

Riccardo Roccella




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