Pubblicato il 10 Novembre 2014 | di Redazione
0LA LAICITA’ ED IL CORAGGIO DELLA PROFEZIA
Riportiamo l’interessante relazione “LA LAICITA’ ED IL CORAGGIO DELLA PROFEZIA”, tenuta il 10 ottobre scorso, da padre Gianni Notari S.J. (sociologo, già direttore della Scuola di Politica e Sociologia “Padre Arrupe” di Palermo, che attualmente opera a Catania) organizzata dal Meic di Modica.
Questa degenerazione rimanda a quella “banalità del male” su cui si interrogò, nel 1963, Hannah Arendt. Filosofa ebrea tedesca, allieva di Heidegger, Bultmann, Husserl e Jaspers, la Arendt descrisse la storia del tenente colonnello delle SS, Otto Adolf Eichmann, criminale nazista che aveva coordinato l’organizzazione dei trasferimenti di milioni di ebrei nei campi di concentramento. Nel 1961, la Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme ed elaborò alcune riflessioni circa le ragioni profonde che avevano condotto quest’uomo a compiere atti così disumani.
Evidenziò come Eichmann non fosse solo. Con lui erano tanti e non erano sadici e pazzi ma terribilmente “normali”. Questa “normalità” è forse più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme. Infatti Eichmann applicava acriticamente ordini impartiti dai superiori, senza curarsi delle conseguenze e del male che ne derivava. “Banalmente” quest’uomo ha mandato al patibolo milioni di persone.
Fatte salve le ovvie differenze fra i fatti storici su cui riflette la Arendt (l’olcausto) e le crisi (economiche ma anche sociali e antropologiche) di oggi, molti problemi possono essere ugualmente connessi alla “acriticità” con cui ci si conforma all’individualismo dominante, con cui si persegue il proprio tornaconto, con cui ci si adagia nel “così fan tutti “.
Oggi si è perso il senso della responsabilità delle proprie azioni, non si riflette sulle loro conseguenze sugli altri, sulla collettività; se ne perde il senso etico e morale; ci si adegua, semplicemente e banalmente, a ciò che altri fanno.
Si fuggono le responsabilità rispetto agli altri, fatto salvo l’ambito ristretto della propria famiglia ovvero ci si conforma a quel comportamento ben sintetizzato con il concetto di “familismo amorale”. Ci si congeda, in tal modo, dalle istanze che provengono da un progetto di vita evangelico basato proprio sull’attenzione alle persone che a livelli diversi interpellano.
Anche un ambito professionale fondamentale come quello dell’insegnamento viene colto prevalentemente come fonte di reddito e non come “missione” da svolgere e responsabilità nei confronti di coloro che ci sono affidati.
E così si lacera il tessuto sociale. Cosa diamo ai nostri ragazzi? Come educatori, cosa trasmettiamo? Trasmettiamo la passione delle cose che contano? Trasmettiamo l’orizzonte di una vita migliore? Trasmettiamo “quel di più” che può rendere la nostra vita migliore?
Quanti vivono in modo appassionato la costruzione di frammenti di una umanità migliore? Quanti seguono concretamente il comandamento che ci dice che l’Altro, epifania della realtà di Dio nel mondo, è persona da amare nella gratuità?
La banalità del nostro conformismo è “male” che si fonda sulla privatizzazione della vita e sull’abbandono di ogni responsabilità. Citando ancora Arendt possiamo dire che “[…] nel processo di miglioramento del mondo, tutti abbiamo dimenticato cosa significa vivere”.
Si sviluppa negli operatori pastorali, al di là dello stile spirituale o della peculiare linea di pensiero che possono avere, un relativismo ancora più pericoloso di quello dottrinale. Ha a che fare con le scelte più profonde e sincere che determinano una forma di vita. Questo relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere come se i poveri non esistessero, sognare come gli altri non esistessero, lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non esistessero. È degno di nota il fatto che, persino chi apparentemente dispone di solide convinzioni dottrinali e spirituali, spesso cade in uno stile di vita che porta ad attaccarsi a sicurezze economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che ci si procura in qualsiasi modo, invece di dare la vita per gli altri nella missione. Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!
Adagiarsi nel clima culturale nel quale siamo immersi condiziona, all’interno della stessa comunità ecclesiale, la qualità della testimonianza. A tal proposito nell’Evangelii Gaudium, al n.83, è sottolineato:
Così prende forma la più grande minaccia, che «è il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità». Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come «il più prezioso degli elisir del demonio». Chiamati a illuminare e a comunicare vita, alla fine si lasciano affascinare da cose che generano solamente oscurità e stanchezza interiore, e che debilitano il dinamismo apostolico. Per tutto ciò mi permetto di insistere: non lasciamoci rubare la gioia dell’evangelizzazione!
Chi è il profeta? Egli è chi rivela il piano di Dio nella storia ed esprime un giudizio sulla comunità dei credenti e sul mondo affinché questi tornino a Lui. Si rilegga a tal fine il libro di Gioele, capitolo 2, versetti 12-17, contenente l’invito alla penitenza:
[12]«Or dunque – parola del Signore – ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti».
[13]Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza
e si impietosisce riguardo alla sventura.
[14]Chi sa che non cambi e si plachi e lasci dietro a sé una benedizione? Offerta e libazione per il Signore vostro Dio.
[15]Suonate la tromba in Sion, proclamate un digiuno, convocate un’adunanza solenne.
[16]Radunate il popolo, indite un’assemblea, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo.
[17]Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: «Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al vituperio e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli: «Dov’è il loro Dio?».
Si rilegga, inoltre, la Gaudium et Spes, n. 43, che nel descrivere “L’aiuto che la Chiesa intende dare all’attività umana per mezzo dei cristiani” dice:
Il Concilio esorta i cristiani, cittadini dell’una e dell’altra città, di sforzarsi di compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del Vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile, ma che cerchiamo quella futura, pensano che per questo possono trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno […] La dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo. Contro questo scandalo già nell’Antico Testamento elevavano con veemenza i loro rimproveri i profeti […].Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero […]. I laici, che hanno responsabilità attive dentro tutta la vita della Chiesa, non solo son tenuti a procurare l’animazione del mondo con lo spirito cristiano, ma sono chiamati anche ad essere testimoni di Cristo in ogni circostanza e anche in mezzo alla comunità umana […]
La profezia non è quindi un semplice anticonformismo, un rifiuto anarchico, un presuntuoso atteggiarsi a “salvatrice della patria”. Il profeta non è un “salvatore” ma un testimone della Luce. La profezia cristiana è saper riconoscere che Gesù è l’evento fondante della nostra vita, che attraverso il suo Spirito mette alla prova ogni umana ispirazione. Il profeta discerne i segni della presenza di Dio, li rileva indicandoli ad ogni uomo come via possibile per un mondo migliore. Dobbiamo aiutare l’umanità a risintonizzarsi con il sogno di Dio, che, al di la dello spazio e del tempo, vuole regalarci la felicità.
Resistiamo quindi a questo “male banale”, a quelle ovvietà che rendono spenta la nostra vita. Recuperiamo quell’appartenere a Gesù Cristo, senso e direzione della Storia.
I laici hanno bisogno di esprimere in maniera più forte la dimensione profetica nel nostro tempo. Il silenzio sulla profezia molte volte è dovuto a una istituzione che fatica a trovare radici liberanti che agganciano la comunità all’esperienza del Cristo morto e risorto.
Nella mia esperienza quotidiana rilevo che i profeti in realtà non mancano. Ci sono tante persone che vivono con coraggio e con responsabilità la propria fede; in questo mondo difficile ci sono persone che stanno assumendo e promuovendo una prospettiva di vita radicale, non “spiritualistica” ma incarnata nel quotidiano. Essi sono testimoni significativi dell’amore di Dio.
Spesso, però, questi profeti del nostro tempo vengono relegati dentro la “gabbia della inopportunità”, fino a svilirne la spinta alla profezia. Ci sono tanti, infatti, che anche nelle espressioni più semplici invocano (e vogliono compiere) un “salto di qualità”, ma vengono messi sistematicamente a tacere, sacrificati all’ipocrisia dell’inopportunità che altro non è che la difesa, interessata, dello status quo. La loro spinta profetica è schiacciata da un certo tipo di potere ma anche dallo stesso popolo di Dio “conformizzato”. Così tutto viene appiattito: le celebrazioni spesso sono “piatte”, l’impegno sociale è “piatto”.
Riflettere su profezia e laicità non può prescindere dall’interrogarsi sul modo di essere cristiani e di vivere il messaggio evangelico. Ogni cristiano dovrebbe incarnare il sorriso della libertà che viene da Gesù. Non la libertà del “faccio ciò che voglio” ma della forza liberante del Vangelo. L’anima della profezia, infatti, non è solo un incontro personale con Gesù come Signore della vita, ma anche l’espressione della nostra laicità che si manifesta nell’impegno politico e sociale.
Ripetuti, da questo punto di vista, gli appelli di Papa Francesco che esorta a non essere “cristiani verniciati” e “abituati alla mediocrità”.
Essere profeti significa, allora, sciogliere i vincoli dell’opportunità e dell’opportunismo per scommettere sulla qualità, per lavorare con pazienza e competenza su relazioni autentiche e profonde, per smascherare chi recita a soggetto e onorare chi paga alti prezzi per servire la Verità. Pensare che la fede è rapporto vivo e non ideologia o devozione opportunistica, ritenere che la diplomazia raramente fa rima con profezia ma spesso ne è la negazione, meditare su quanto in questo mondo ci sia bisogno di parole profetiche e non di fughe intimistiche.
Tutti siamo chiamati ad essere profeti.
Benedetto XVI diceva a Stara’ Boleslav il 28 settembre 2008, ultimo giorno del viaggio apostolico nella Repubblica Ceca: “C’è bisogno di responsabili politici credenti e credibili, pronti a diffondere in ogni ambito della società quei principi e ideali cristiani ai quali si ispira la loro azione. Questa – ha aggiunto – è la santità, vocazione universale di tutti i battezzati, che spinge a compiere il proprio dovere con fedeltà e coraggio, guardando non al proprio interesse egoistico, bensì al bene comune, e ricercando in ogni momento la volontà divina. Inoltre, il Papa, ricordando l’esempio di San Venceslao, ha incoraggiato ad essere credibili perché non basta ”apparire buoni ed onesti” ma ”occorre esserlo realmente”. E la profezia è una via attraverso cui è possibile esprimere la nostra santità.
Se non c’è a fondamento Cristo, siamo fuori gioco. O ci siamo fino in fondo, con una forte reazione a questo male “banale” e costruiamo modelli alternativi di esistenza o nulla ha senso.
Teillhard de Chardin, Helder Camara, Dietrich Bonhoeffer, Aldo Moro, Pino Puglisi. Sono solo alcuni dei tanti che hanno scelto di investirsi in questa avventura della vita, animati dalla consapevolezza di essere al servizio del Regno. Essi hanno scelto di non vivere in silenzio ma di trasmettere a tutti la forza della profezia.
Anche nell’ambito della famiglia dobbiamo dire no alle comode alchimie della mediocrità e dello stesso individualismo familiare. La famiglia deve edificarsi sull’Amore come servizio e come dono, come testimonianza di Gesù: fondamento che ci radica nell’esperienza della Croce.
Concluderei citando una prospettiva significativa aperta da Italo Calvino, un laico che a conclusione del suo “Le città invisibili”, edito nel 1972, parlando di una grande sofferenza presente nel mondo fa affermare a Marco Polo, che considera i futuri non realizzati come rami secchi del passato:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Questo è il compito del profeta: cercare e saper riconoscere cosa, in mezzo all’inferno non è inferno – che diventa discernimento – e poi farlo durare e fargli spazio. Questo è l’orizzonte della nostra ricerca, il cammino che si prospetta in questo tempo di formazione. Viviamo, allora, la vita fino in fondo, mettendo in gioco tutto ciò che possiamo. Andiamo avanti, fidandoci della fedeltà di Dio. Questa è la sfida! In questa avventura noi riusciremo ad essere un po’ più felici di appartenere a una Chiesa, di uscire dalle sagrestie che puzzano di incenso medievale e stratificato e respirare lo spirito di Dio.
Buon cammino, grazie!
2) Il discernimento, per cogliere i segni di Dio e della speranza in questo tempo di incertezza e di precarietà.
3) La verifica. L’ultimo incontro MEIC dovrebbe servire a chiedersi: cosa è accaduto nella mia vita durante questo tempo di formazione? Bisognerebbe sostare, per comprendere quale direzione ci stiamo dando, quali obiettivi perseguiamo. Una volta si parlava di “esame di coscienza”, ma non in senso “pietistico”, piuttosto esistenziale.
A tal proposito è appropriata la menzione di Gramsci. Egli fu un un laico dalla rigorosa rettitudine, che imprigionato nel carcere si interrogava sul senso della vita e della storia.
Oggi la profezia fa paura. Ciò che conta è la corsa al potere, sacrificando dono e gratuità. Ma l’arma del cambiamento risiede nella mani di ognuno di noi.
Auguro a tutti di poter sostare per chiedersi come darsi qualità di vita e alimentare il desiderio di un mondo migliore.
Ignazio Petriglieri: “Grazie, don Gianni, oggi abbiamo bisogno di profeti, per vivere la dimensione profetica in comunità, per con-fortarci!”