Emanuele Giudice

Pubblicato il 26 Novembre 2015 | di Redazione

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Controlli e controllati in democrazia

Ci stiamo inventando un’Italia fuori dalle regole, allergica a ogni tipo di controllo. Perché vogliamo creare una nuova etica della privacy, una religione del proprio io in cui si annidano tutte le possibili prevaricazioni, travestite di un liberismo d’accatto, casereccio e provinciale.
L’etica è diventata, più che un optional, un fastidioso impiccio da cui liberarci al più presto, lasciandola ai vecchi e lamentosi bacucchi esterni alla politica.
Il potere teorizza, auspica, vuole, in nome dell’efficientismo del fare, la cancellazione di lacci, di regole e divieti, in modo da rendere visibili i risultati della politica. Quando si dichiara, in modo sprovveduto, rozzo e inquietante, come ha fatto, nei giorni passati, chi ci governa, che «fare leggi rispettando la Costituzione è un inferno», non solo si oltrepassa ogni limite di decenza politica, ma si propugna, con una chiarezza ripugnante, una volontà demolitiva del testo costituzionale che conduce all’arbitrio e all’autoritarismo.
Se rispettare la Costituzione è un inferno, dove sta il paradiso? Nell’arbitrio, nel diritto di fare e strafare, imbavagliando la stampa e dando più spazio alla droga televisiva?
Ma il potere senza controllo, questo sì, sarebbe un inferno. Perché non esiste democrazia senza regola, la democrazia è in se stessa sistema di regole, trama di trasparenze, dove ognuno può leggere quanto avviene, per conoscere gli avvenimento e quindi giudicare, e dopo aver giudicato, scegliere. Il controllo serve ad evitare che chi ha il potere lo usi contro il cittadino, indirizzandolo al suo personale profitto.
Prendiamo il caso degli appalti. La legge impone che i lavori per ogni opera pubblica per cui esso è previsto, non siano affidati a Tizio o a Caio, in base al criterio clientelare vigente nella politica-affare, ma a chi vince una gara indetta attraverso una procedura trasparente. Alla gara partecipa una pluralità di ditte, ognuna delle quali ha un interesse legittimo a vincerla se fa il più alto ribasso sul prezzo base prestabilito. Questa la regola, la quale, ha anche le sue eccezioni. Se succede un terremoto, un’inondazione, una frana, che impongono di intervenire subito, si può procedere all’affidamento dei lavori, omettendo la gara, espletando una trattativa privata. Se l’urgenza non c’è, bisogna indire una pubblica gara tra varie ditte aventi gli stessi requisiti e interessi che vengono in competizione attraverso la gara.
Avviene invece che la congrega delle ingordi arpie del malaffare, per potere aggredire il malloppo fa una cosa in-tollerabile, si inventa le urgenze. Tutto è urgente, indilazionabile, impellente. E viene dettato dalla politica del successo, che vuole il risultato immediato che lasci di stucco gli osservatori esterni e procuri consensi, aprendo una porta “speciale” ad amici, servi e cortigiani. Diventano urgenti i campionati mondiali di nuoto, di calcio o di basket, la cui data è fissata parecchi anni prima, le feste del santo patrono, e così via. Di urgenza in urgenza.
Lo scandalo della “cricca” di Anemone, De Sanctis, Della Giovampaola, Piscicelli ed altri, ha trovato questa provvidenziale scappatoia: l’urgenza. La quale, anche quando è vera, è già in se stessa una manna caduta dal cielo, quella ha indotto i due gaglioffi sciacalli che si telefonavano nottetempo sghignazzando, qualche ora dopo il terremoto dell’Aquila, mentre la gente moriva sotto le macerie, e loro pregustavano gli affari che ne sarebbero seguiti.
Quando l’urgenza si crea dal nulla inventandola spudoratamente, si cancellano d’un colpo e illegalmente le attese di chi avrebbe partecipato alla gara, aprendo la stura ad ogni sopruso e si viola ogni regola dettata dall’etica e dal pubblico interesse.
Non dite che sono delinquenti, e basta. Delinquenti lo sono perché qualcuno, volendo farseli amici, li blandisce, li accarezza e apre loro le porte.
La tesi posta a fondamento fasullo di un tal modo di ragionare, è che la sovranità popolare, in base alla quale si è ricevuto un mandato, legittimerebbe qualsiasi comportamento in nome del risultato, della risposta da dare subito. La sovranità sarebbe una sorta di detersivo che lava ogni macchia, cancellandola preventivamente e autorizza ogni arbitrio.
Si dimentica di leggere per intero il secondo comma dell’articolo 2, che, dopo la parola ‘popolo’ aggiunge: «…che la esercita nella forma e nei limiti della Costituzione».
Non esiste una sovranità assoluta, se non nei regimi dittatoriali o autoritari. L’esercizio del potere politico è soggetto ad ogni tipo di errore o di prevaricazione. Per questo la saggezza ha dettato ai nostri padri costituenti la necessità di imporre limiti congrui all’esercizio di ogni potere. Il controllo è il cuore della democrazia.


Autore

"Insieme" esce col n° 0 l'8 dicembre del 1984. Da allora la redazione è stata la "casa di formazione" per tanti giovani che hanno collaborato con passione ed impegno.



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