Emanuele Giudice

Pubblicato il 26 Novembre 2015 | di Redazione

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Del celebrare se stessi

Ognuno di noi, chi più chi meno, spesso inconsapevolmente, ha una inclinazione irresistibile a parlare di sé, ad auto- citarsi, a infiorare i discorsi con la parola io. Io io io. Quante volte pronunciamo questo pronome per condire il nostro eloquio? Lo facciamo portando come esempio la nostra esperienza, narrandoci con l’intento malcelato di sottolineare noi stessi e di proporci agli altri come misura edificante di contegno. In italiano questo sproloquio si chiama «egolalia» e vuol dire tendenza a parlare continuamente di sé.
Di converso, quante volte pronunciamo il pronome tu? Solo in caso di necessità discorsive. Poi basta.
I nostri cosiddetti dialoghi, subiscono quasi sempre la tentazione di ridursi a monologhi. Ci pare di aver ascoltato gli altri, ma in realtà abbiamo solo parlato di noi. Abbiamo celebrato noi stessi. Ci capita anche di non lasciare all’interlocutore il tempo di esprimere compiutamente il suo pensiero. E siccome egli è afflitto dalla stessa inclinazione all’io, anch’egli prevarica, per cui quello che doveva essere un dialogo, un confronto, un misurarsi sulle diversità, finisce col diventare una lotta a scagliare le parole “io, io” sull’interlocutore come fossero pietre. Io che scrivo non sono esente da tale difetto, ci casco anch’io, spesso inconsapevolmente, anche se dopo me ne pento e recito un atto di contrizione che “a posteriori” non vale nulla.
Quello che ho tentato di descrivere scaturisce da ciò che in qualsiasi vocabolario italiano viene definito «egotismo» che vuole indicare una «eccessiva stima di sé che induce ad attribuire valore solo alla propria esperienza».
Dobbiamo imparare ad ascoltare, prima di imparare a par lare. L’ascolto è un elemento di delicatezza, di rispetto del tu, di consapevolezza che l’altro, anche quando è in errore, ha sempre qualcosa da dire che mi arricchisce, mi stimola, mi induce a riflettere. E l’ascolto è anche la premessa della democrazia, è un termometro che serve a misurare il malessere della prevaricazione antidemocratica. Non c’è democrazia senza ascolto.
Ci sono diversi tipi di celebrazioni di sé. C’è una celebrazione quasi inconsapevole fatta di abitudine, di una inclinazione quasi spontanea a proporci agli altri come esempio, cedendo alla lusinga di metterci al centro dell’interesse altrui, e c’è una consuetudine a usare il turibolo mandando il fumo dell’incenso verso noi stessi: il narcisismo è la più comune esaltazione dell’io in cui incorriamo. Ma c’è un ripiegamento su di sé ancora più grave che sfocia nell’adorazione, in una sorta di egolatria, cioè di culto che ha per oggetto se stesso.
Questa rilettura del vocabolario, che ho tentato di fare, in politica trova un terreno fecondo, contagiante e diffusivo. La politica è naturalmente competizione, e quindi tende continuamente all’accreditamento di sé presso gli altri, soprattutto verso l’altro competitore, cioè l’avversario.
Poi ci sono altri spazi esemplari di scadimento del costume, dove si affaccia prepotente l’ipertrofia dell’ego, il bisogno inderogabile della ribalta e delle luci puntate su di sé. Quando, ad esempio, si accarezzano le inclinazioni maschiliste diffuse in certi strati del Paese. «Io non ho mai pagato una donna, non ho mai capito che soddisfazione ci sia se non c’è il piacere della conquista» riemerge il clichet del cacciatore e della preda, in cui la preda si dovrebbe (ma non è così) immolarsi gratis al cacciatore. Si indulge all’eccesso di sorrisi, scherzetti e barzellette; ed è la fregola indomabile di apparire simpatico a ogni costo, di fare scialo di galanterie deprimenti con corredo di lauti donativi a chi è gentile nel ricambio del dono, anche se questo è degradante. E poi c’è al altro, tanto altro, nel catalogo gonfio di goliardiche invenzioni, arcinoto sul proscenio nazionale e internazionale. Qui la celebrazione di sé si fa malessere, vizio, sfrenata egolatria, segno di una caduta rovinosa di valori. Una sorta di livore vibratile incontinente, che induce a iperboli grottesche che portano a straparlare, farneticare, delirare, definendosi gratis il più grande Premier che l’Italia abbia avuto negli ultimi 150 anni. Cavour, Giolitti, De Gasperi, Moro? E chi sono?
Se qualcuno tra noi marginali straparla come lui reagiamo definendolo pallone gonfiato e passiamo al dileggio.
Per i cristiani poi, c’è un’altra misura dei rapporti col tu. La misura delle retrovie, dei cantucci in cui deve ritirarsi l’io per dare posto al tu, al prossimo, che si colloca a un metro dalla mia umanità, anche se vive a molte miglia da me.
Quel fariseo che pregava Dio esaltando se stesso, ne è l’esempio pregnante: «Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, faccio digiuno due volte la settimana, pago la decima delle le mie rendite…”. Una celebrazione di sé, con l’elenco tronfio delle proprie virtù, e il disprezzo per l’altro.


Autore

"Insieme" esce col n° 0 l'8 dicembre del 1984. Da allora la redazione è stata la "casa di formazione" per tanti giovani che hanno collaborato con passione ed impegno.



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