Emanuele Giudice

Pubblicato il 26 Novembre 2015 | di Redazione

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Domande dei giovani e silenzi degli adulti. Una generazione allo sbaraglio?

C’é un improvviso tiro al bersaglio sui giovani, entrati da qualche tempo nella sfera di interessi degli adulti, ma solo per lanciargli contro giudizi confezionati lì per lì, con volatile levità e improvvisazione?

È un fiorire di epiteti, battute, freccette unte del leggero veleno della sufficienza parentale e perbenista. Ad esibirsi nelle platee della politica, è stato un coro di arrivati eccellenti, professori in carriera, tecnici alla moda e uomini di rango della politica, tutti lanciati nell’arte della censura e del giudizio scivolante, ognuno dal suo piccolo scanno sapienziale.

Il primo strale è antico di qualche anno, risale a Padua Schioppa che inventò l’epiteto – sospeso tra paternalismo bonario e velata accusa di accidia – di “bamboccioni”, figure malinconiche nel catalogo dell’umano, bambinoni  grassocci e molli, avvoltolati nella loro comoda pigrizia.

Ora un vice ministro con la sembianza levigata di un giovanotto di buona famiglia, laurea alla Bocconi, 110 e lode, ha definito “sfigati” quelli che non sono riusciti a laurearsi a 28 anni, senza la prudenza di chiedersi se per caso non ci fossero, a produrre il ritardo, ragioni attinenti al binomio studio-lavoro, o altre. È tornato a salire in cattedra bocconiana anche il presidente Monti per invitarli a scordarsi il posto fisso a vita, il quale fra l’altro «è monotono». Con tutto il rispetto per un politico che sta faticosamente portandoci fuori dal baratro berlusconiano, osservo che egli immagina i giovani come una congrega bivaccante in un immenso prato fiorito, dove, volendo, si può passare di fiore in fiore, copiando lo svago dalle api. Ma queste, si sa, rifiutano il fiore “fisso” come il “posto” aborrito da Monti, perché davanti a loro c’è una abbondanza di fiori tra cui fare l’opzione più congeniale. Proprio al contrario di ciò che avviene per i posti di lavoro, che non sono certo abbondanti come i fiori.

La ministra Cancellieri si è unita al coro dei censori, puntualizzando con animato disappunto che i giovani «pretendono il posto fisso nella stessa città, accanto a mamma e papà». Versione romantico-casereccia del problema sociale del lavoro, secondo la quale la causa della disoccupazione giovanile sarebbe la pigrizia, la sedentarietà e la pretesa di  strusciarsi tra le coccole di casa, rifiutando, come Alice nel paese delle meraviglie, di diventare adulti.

Ilvo Diamanti, su Repubblica del 13 febbraio 2012, osserva giustamente che «è difficile considerarli partigiani del posto fisso, visto che  di fisso hanno solo la  precarietà».

Qui, invece, siamo di fronte all’elogio del provvisorio e del mutabile, attinto nell’ottica di una presunta modernità, che fa del posto fisso un assioma, a sua volta demonizzato da una destra che scambia la mobilità con la precarietà. Ciò che penalizza i giovani, infatti, più che la mobilità, è la precarietà. Non hanno paura a muoversi per trovare un lavoro, come dicono le statistiche, ma della precarietà e della esclusione. Chiedono la sicurezza del posto di lavoro che apra loro, assieme allo sportello bancario per il mutuo, le porte della società, casa, famiglia, vita di relazione. Cose  non garantite da una precarietà ostativa a qualsiasi disegno o progetto proiettato nel dopo.

È una generazione che assiste impotente alla rapina del proprio futuro. Così come dovrà subire il carico di un debito pubblico di enormi proporzioni (il 120 per cento del Pil) che i loro padri e ascendenti hanno caricato sulle loro spalle e che dovranno in futuro pagare. Quasi un giovane su tre è senza lavoro, uno su due nel mezzogiorno, i precari sono intorno al 30 per cento, per le donne tali numeri aumentano.

Tutto ciò che li riguarda è chiuso nel bozzolo dell’attesa, in un coacervo di vaghi futuribili. Un bazar dei sogni dove ci si dondola nell’incerto e si marcisce nel rinvio sistematico che genera l’attesa di ciò che non arriva e genera frustrazioni che a noi paiono analgesici ma in realtà danno solo l’illusione del lenimento mentre la piaga va in cancrena.

Che pretendiamo allora dai figli e nipoti?

Un grazie per la rapina del loro tempo che noi, e altri prima di noi, abbiamo consumato ai loro danni?

Dovremmo capire che il tempo è sempre il loro tempo, quello in cui debbono esprimersi nella pienezza e intensità della vita, accettando la scommessa che é il vero timbro della condizione giovanile e il segno verace della speranza.


Autore

"Insieme" esce col n° 0 l'8 dicembre del 1984. Da allora la redazione è stata la "casa di formazione" per tanti giovani che hanno collaborato con passione ed impegno.



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