Pubblicato il 26 Novembre 2015 | di Redazione
0L’ossessiva invasione dell’articolo 18
Il dosaggio di somministrazione giornaliera di articolo 18 è in progressivo aumento su tutta la stampa nazionale e sulle tv di ogni ordine e colore. Di che ha parlato il telegiornale? Dell’articolo 18. E la stampa? Dell’articolo 18. Però in piazza, per strada, dal barbiere e al bar dello sport dell’articolo 18, per fortuna si parla meno, essendo questo un argomento nobile.
A volte si ha l’impressione di una tv che si parla addosso, usa linguaggi attinti dalla tecnologia, frasi trasportate di peso dalla carta stampata a quella sonora.
Questa temperie mediatica imperversa da settimane e dura ancora oggi senza che qualcuno si prenda la briga di spiegare, in termini comprensibili per tutti, di che si tratta.
Riguarda i licenziamenti l’articolo 18 ed è contenuto nello Statuto dei lavoratori. È una norma sacrosanta che tutela le ragioni di chi lavora in modo preferenziale rispetto alle aziende, all’interno di un tessuto normativo di rango costituzione che vede proprio nel lavoro il fondamento della nostra Repubblica (art. 1). La tutela del lavoro non poteva con connettersi con la realtà aziendale, sia nel momento dell’ingresso del lavoratore, sia nel momento della sua uscita. In entrata quindi e in uscita. Con ciò non possono non entrare in gioco l’economia delle aziende, l’occupazione giovanile, la crescita del prodotto interno lordo, lo sviluppo in generale del Paese e, di riflesso, anche la stabilità del governo. Aggiungasi il ruolo del sindacato, espresso nel caso con la sua loquacità o reticenza, il travaglio dei partiti, il parere della Chiesa, e infine il silenzio frastornato dell’uomo della strada che nella babele non sa come orientarsi.
Finisce che i giovani, interpellati sul tema, ad esso si dichiarano disinteressati mentre vi sono dentro fino ai capelli, e i sindacati si dividono tra duri e mollicci, come davanti a una banale ordinaria e piccola amministrazione, e anche la Chiesa pare intervenire per dovere d’ufficio per non restare fuori dal crepitare dell’attualità e respingere l’accusa di un prudenziale silenzio, mentre l’uomo della strada precipita nell’ignavia colpevole di chi preferisce starsene a governare i suoi conati di vomito davanti i partiti.
Manca o è carente la consapevolezza che siamo di fronte a una norma di civiltà che ci pone tra i primi in Europa, accanto alla Germania, nella tutela e difesa del lavoro all’interno di un tessuto normativo che gradua le tutele partendo dalle posizioni più deboli, quelle dei lavoratori, e passando per le aziende come garanti del lavoro e dello sviluppo attraverso la loro solidità, competitività e capacità di conquistare nuovi mercati in Italia e all’estero. Imboccando cioè decisamente i sentieri di un autentico sviluppo economico.
Si tratta di restituire al lavoratore il ruolo primario di volano dello sviluppo che la Costituzione gli assegna rendendolo protagonista e allo stesso tempo beneficiario di sempre nuovi progetti di sviluppo e di crescita economica.
L’impressione che se ne ricava invece è quella di un governo oscillante tra interessi contrapposti, quelli di un sindacato che annaspa, dei mercati e della finanza che spadroneggiano, e di un’ opinione pubblica notevolmente disorientata che non riesce a smaltire la sua stanchezza di fronte a questo scontro proprio al centro di una crisi, rispetto alla quale l’articolo 18 ha poca attinenza.
Il limite del governo Monti sta nel fatto che esso appare legato alla sua cultura d’origine, a quella matrice tecnocratica, fortemente liberista i cui fondamenti stanno nel mercato, nella finanza, nella stabilità dei conti pubblici disancorati dal rilancio degli investimenti, nei sacrifici imposti indiscriminatamente a tutte le categorie, compresi i pensionati a bassissimo reddito. Il cosiddetto decreto “salva Italia”, conteneva il blocco degli scatti di miglioramento economico anche per le categorie con un reddito di 400 euro al mese, poi elevato, per fortuna ritirata, a 1400 euro.
Temi come l’evasione fiscale, le politiche degli incentivi ai consumi intesi a produrre stimoli alla produzione e agli investimenti, appaiono largamente fuori dall’interesse del governo, relegati in dopo che verrà, ma senza data.
Le banche, ad esempio, auspice Mario Draghi nella veste di presidente della Cee, ricevono denaro dalla Banca Centrale Europea all’interesse dell’1 per cento. È una misura volta a stimolare gli investimenti produttivi e quindi lo sviluppo. Ma c’è da chiedersi se e come le banche italiane stiano utilizzando tale opportunità, erogando prestiti alle imprese e alle famiglie a basso tasso di interesse.
E di fronte a un loro totale, imbarazzante silenzio, cosa fa il governo Monti, anche per rimuovere da sé l’accusa di essere il governo delle banche e dei banchieri?
Possiamo solo dire, concludendo, che, allo stato, l’elemento che maggiormente qualifica e rende accetto a larghi strati di opinione pubblica questo governo, è dato dal fatto che esso chiude la degradante e inerte parentesi del berlusconismo e dell’anchilosi a cui ha condotto il Paese.