Pubblicato il 26 Novembre 2015 | di Redazione
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La politica degli ultimi quindici anni, uscita dalla bufera di tangentopoli con una pretesa liberatoria e risanatrice, non ha obbedito a un progetto specificamente elaborato e approvato dal corpo elettorale. È stata invece caratterizzata da un navigare a vista, un procedere a tentoni, ricalcando esperienze altre e spurie, lasciando che la marea degli avvenimenti e degli umori della classe dirigente e del Paese ne indicasse i percorsi e le scelte.
Ne è nata, come da un parto mostruoso, l’antipolitica come rifiuto del complesso e del pensiero compiuto, espressione invece di un pensiero fievole, fatto di semplificazioni populiste, di emozioni catastrofiste, di cateratte di sproloqui tribunizi, tutti indici di carenze progettuali e di passione civile, affidati solo a tentativi banali e talvolta insensati, di tradurre nell’immediato la domanda politica, senza attendere i suoi tempi ragionevolmente dilatati. L’antipolitica ratifica e stimola la fuga dell’opinione pubblica, incentiva una dismissione emotiva dalla vita stessa del Paese, alimentando il disgusto quotidiano prodotto dai tradimenti della cosa pubblica consumati sotto gli occhi di tutti.
Si può convenire con la denuncia forte e ultimativa, di cui pare autore solitario Beppe Grillo, non certo con le idee bislacche e i toni beffardi che la accompagnano e timbrano. Grillo, digiuno com’è di economia, quindi con maldestra sicumera, propone l’uscita dall’euro e il ritorno alla lira, asserisce, nella terra di Falcone e Borsellino, che la mafia non c’è, essendo stata assorbita dalla delinquenza politica vigente, annega tutto in un nichilismo apocalittico, evitando accuratamente il confronto politico, il dialogo democratico, la ricerca paziente delle soluzioni.
Ma il rifiuto radicale della politica, pur se motivato, è il frutto bacato di chi vorrebbe, al posto della politica, introdurre forme di mediazioni e tutele privatistiche, proprie di una classe politica digiuna di esperienza, spesso improvvisata, ingorda di carriere e sinecure, incline a misurarsi su interessi di timbro personale e protesa a mimare una ragione pubblica delle proprie scelte, anche quando essa é inesistente.
È assolutamente vero comunque che la politica è diventata un porto franco dove tutto si compra a basso o caro prezzo, e tutto è in vendita prescindendo da ogni controllo democratico. I Lusi, i Fiorito, le Polverini, i Formigoni, i Maruccio e gli altri, sono gli epigoni di una deriva del disfacimento che ha imbarbarito la politica, portando il Paese ad una caduta etica verticale.
In questo contesto è germogliata quella dissolutezza, arrogante nella sua ostentazione e nel rifiuto di darne conto, che chiama in causa tutti e quindi anche la Chiesa, non solo perché tali fenomeni sono in aperto conflitto con il suo magistero, ma soprattutto perché richiamano il paragone con ben altre testimonianze fornite da figure storiche eminenti del cattolicesimo democratico che han- no onorato la chiesa e il Paese.
Nella storia recente della Chiesa e della società civile italiana splende la vita irreprensibile, limpida ed esemplare di maestri della politica e della vita come Sturzo, De Gasperi, Moro, Zaccagnini, Bachelet, Lazzati, La Pira, Dossetti, Milani, Mazzolari, Ardigò, Scoppola, Martini. Uomini la cui figura etica e civile é una lezione non archiviabile per tutti. Anzitutto per la Chiesa.
Assumono rilevante significato quindi le pubbliche lodi di De Gasperi, fatte recentemente da Benedetto XVI, come testimone politico di grande segno, anche per la forte coscienza laicale che lo ha indotto a rivendicare, anche di fronte alla sua Chiesa, la propria responsabilità e autonomia di laico impegnato in politica.
Davanti a Pio XII, che gli proponeva di imbarcare nel governo esponenti della destra monarchica e post-fascista, egli ebbe il coraggio di pronunciare con fermezza il suo “non posso”, alienandosi la stima del pontefice che, a seguito di ciò, non volle più riceverlo in Vaticano. Esempi non più reperibili nello spazio politico italiano.