Vita Cristiana

Pubblicato il 9 Dicembre 2015 | di Redazione

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Laici in uscita. Primo annuncio e segni dei tempi.

foto 3 (1)Presentato il 6 dicembre scorso da Francesco Arangio, presidente diocesano dell’Azione Cattolica, il Vescovo Mansueto Bianchi, assistente spirituale nazionale di AC, ha proposto a una vasta platea la sua riflessione “controcorrente” sul ruolo dei laici in una Chiesa in uscita, chiamata al primo annuncio del Vangelo in una società in cui si colgono i nuovi segni dei tempi.Nel pubblicarne una sintesi, non verificata dall’autore, apriamo il dibattito sul tema e auspichiamo la più ampia partecipazione.

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IL VERBO ANDARE, USCIRE…..

Oggi vorrei riportare la vostra attenzione su un verbo, regalatoci dal Papa, che non è nuovo ma è ritornato negli orientamenti per il triennio dell’Azione Cattolica ed è riaffiorato nella settimana sociale della Chiesa Cattolica a Firenze: il verbo è ANDARE (per le strade), USCIRE, da cui l’espressione di Papa Francesco “Chiesa en sortida”.

Andare, uscire, è un verbo biblico ed evangelico. Si pensi alle parole di commiato di Gesù ai suoi: andate e fate miei discepoli tutti i popoli (Matteo); andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a tutte le mie creature (Marco).
Ma il verbo viene da più lontano: la creazione, la storia della salvezza, Gesù di Nazareth, la Chiesa che da Lui nasce e parte per il mondo, sono intessuti da un unico filo rosso, il verbo andare, il verbo uscire.

Dio per primo esce da sè, si fa lontano da se stesso e pone al centro la distanza, la lontananza, la periferia, la marginalità. Il Figlio, e con lui la Trinità, entrano nello spazio della lontananza, del peccato, della maledizione, per riconsegnare tutti i figli del peccato all’abbraccio del Padre.

E di questo uscire di Dio e del Figlio e della Trinità, tra pochi giorni, vedremo il frutto, quando diremo oggi è Natale: la Trinità sopra la paglia, la gloria di Dio che si fa paglia, per avvolgere nel suo abbraccio tutte le nostre povertà, questo è il Natale!

USCIRE É ROVESCIARE LA CHIESA

Allora uscire, per la Chiesa, è fare ciò che Dio ha fatto in Gesù di Nazareth, cioè porre il centro nella periferia, porre la prossimità in ciò che è lontano, distante, e pronunciare da vicino la parola dell’accoglienza a chi è irrigidito dentro l’atteggiamento del NO.

Ad uscire si impara dal Signore, dal rimanere nella Comunione, nella contemplazione, nell’incontro e nella preghiera verso il Signore, come Maria di Betania. Uscire per evangelizzare è superare, anzi è “rovesciare” una Chiesa che si guarda allo specchio. Prima cosa da fare è rompere specchi e specchietti in cui la Chiesa si guarda. Spaccare gli specchi è un’opera indulgenziata dall’Anno Santo.

Ciò perché, guardandosi allo specchio, la Chiesa subisce il trauma dell’erosione, e diventa amara dentro. Il trauma dell’erosione genera, a sua volta, tre reazioni:
1) la comunità si intristisce, appassisce, si ripiega, si spegne, diventando Chiesa della depressione;
2) la comunità diventa ringhiosa, cioè parallela al mondo, al tempo, aggressiva nei confronti del mondo e del tempo, perché lo vede nemico, e lo considera una minaccia, e lo condanna, e punta il dito, diventando Chiesa dell’imprecazione;
3) la comunità scondinzola, cioè si confà al mondo, si configura al mondo, diventa la Chiesa del “sono come tu mi vuoi”, la Chiesa del micino quando fa le fusa, diventando la Chiesa della citazione, per cui l’annuncio è il già detto, il già sentito, e la Chiesa si riduce a pronunciare frasi da salotto.

Dinanzi a un Cristianesimo di minoranza, come noi in Italia siamo, e in una società ampiamente secolarizzata, o ci si chiude nella logica della setta, come gli undici all’inizio chiusi nel cenacolo, oppure ci si consegna alla logica dell’estroversione, alla logica della missione, come Gesù dinanzi alla crisi della Galilea, che allarga la predicazione anche alle regioni pagane.

USCIRE NON É FARE DI PIÙ, MA FARE IN MODO DIVERSO

Che vuol dire uscire per l’Azione Cattolica? Per l’AC “uscire” vuol dire, essenzialmente, non fare qualcosa in più ma fare in modo diverso quello che già si fa, non per rispondere alle domande che ci vengono rivolte ma per suscitare tali domande a chi da solo non se le porrebbe mai.

Il cristiano oggi deve aiutare la persona a leggersi dentro, per riconoscere i propri desideri profondi. Ad esempio, come fa Gesù con la Samaritana, quando le fa vedere che la sua sete non è solo del corpo, ma anche dello spirito, e che è sete di un’acqua che non disseta per poco ma per sempre. Gesù chiede poi alla Samaritana di andare a chiamare suo marito, ma lei risponde che non ha un marito, ma che ne ha avuti cinque e ora convive con un sesto uomo. Ma nella domanda di Gesù è nascosta la provocazione a percepire un bisogno più profondo: la sete d’amore, che si sazia con l’amore e non con gli amanti.

Bisogna allora provare a guardarsi con gli occhi di chi è fuori – chi sta lontano, come ti vede? – guardarsi con gli occhi dei lontani. Una Chiesa in uscita ha meno passione per le scadenze e più attenzione alle persone, sa che il criterio principale è la misericordia, la gradualità paziente, l’accettazione di ciò che la persona è, e l’aiuto graduale per fare sì che la persona progredisca.

UNA CHIESA FEDELE E LEGGERA

Una chiesa in uscita è fedele ma non conservatrice. La fedeltà è vicina alla conversione, è un fuoco, mentre la conservazione è una cenere. Per rimanere fedeli bisogna saper cambiare. La fedeltà è nel cambiamento. Bisogna cercare, tentare, sperimentare, motivatamente cambiare. Rispondere “si è sempre fatto così” è durezza di mente e ristrettezza di cuore.

Per uscire, per andare, per il primo annuncio, bisogna quindi essere leggeri. Una chiesa troppo pesante non potrà essere una chiesa in uscita. Essere leggeri vuole dire, come dice Gesù (capitolo 6 di Marco, 10 di Matteo, 9 di Luca) “non prendere bisaccia, due tuniche, etc….ma solo due cose….il bastone e i sandali”. Il bastone perché la strada è in salita, i sandali perché la strada è sassosa e taglia i piedi; prendere cioè solo ciò che serve a camminare. Non prendere denaro, non prendere neanche – oggi si direbbe – un centesimo di euro.

Una Chiesa in uscita deve essere leggera per rendere più elastiche le sue strutture, i suoi apparati, per adattarsi meglio alle persone, per rendere “possibili” le azioni, malleabili i processi, per cui è bene semplificare le strutture. I vestiti durano più a lungo delle persone per cui sono stati tessuti: certi vestiti sono per certe persone, se le persone cambiano devono cambiare i vestiti. Allora bisogna stare attenti e ragionare con questi nuovi schemi.

NON TUTTO HA LA STESSA IMPORTANZA

Ed ancora, Chiesa in uscita vuol dire una Chiesa in cui non tutto ha la stessa importanza. Serve tutto, ma non tutto allo stesso modo. E non tutto è comprensibile, vivibile, fin dal primo momento. PRIMA vengono il Vangelo e la persona di Gesù Cristo, DOPO vengono la dottrina, la morale, la liturgia, il diritto, che non hanno la stessa importanza di ciò che viene prima, pur essendo anch’essi importanti.

Queste cose sono scritte chiaramente nella Evangelii Gaudium, ma sono già evidenti nel principio di “gerarchia delle verità” formulato dal Concilio Vaticano II. In altri termini, non tutto ciò che è vero ha la stessa importanza. Le prime verità sono costitutive, le altre sono costituite.

CAMBIARE LINGUAGGIO

Anche il linguaggio, in una Chiesa in uscita, cambia, diventa più propositivo che impositivo, valorizza il bene, le scintille di luce presenti nell’altro, non è assertorio ed escludente, ma capace di mediazione pedagogica. Uscire verso le persone, verso la vita, non è mai questione di parola (io ti dico questo) ma di persona e di vita (di mani, di faccia, di gesti, di opere, trasfigurate dal Vangelo).

Noi abbiamo un concetto troppo libresco dell’annuncio, della evangelizzazione. Evangelizzare vuol dire offrire la propria vita, così come si è. Il primo annuncio chiede quindi una comunità convertita al Vangelo, o che almeno cerchi di lasciarsi convertire dal Vangelo. Dobbiamo dare visibilità con le nostre comunità alle parole che pronunciamo. Se l’AC vuole essere una forza in uscita, deve essere capace di far vedere come sta bene insieme, nella bellezza della fraternità, nella gioia di vivere in comunione.

IL PRIMATO DEI POVERI

Una Chiesa in uscita ha una forte gravitazione sui poveri, perché il Vangelo è destinato anzitutto ai poveri (Gesù in Luca: porto il Vangelo ai poveri) con estrema concretezza. Chi non ha mai toccato un povero con le mani parla di qualcosa che non sa.

Tu fai la carità e la carità fa te: la carità è Dio, e mentre tu dai la tua umanità ai poveri, i poveri, quindi Dio, fanno uomo te. Bisogna allora farsi coinvolgere dai poveri. Gesù ci evangelizza attraverso i poveri. Una Chiesa “ospedale da campo” è una Chiesa in cui la misericordia, la comprensione, precedono il giudizio, che non è mai sulla persona ma solo sul comportamento.

Questo influisce sul rapporto fra carità e verità, fra precetti e amore. Una carità senza precetti è una carità svuotata? NO. Legge e amore, verità e carità, misericordia e giustizia stanno insieme. Sant’Agostino distingueva fra le ali della rondine sulla bilancia (un peso) e le ali della rondine sul corpo (strumento della sua leggerezza). I precetti da soli pesano, ma se sono lo strumento dell’amore sono leggeri e permettono all’amore di volare.

IL PRIMO ANNUNCIO È ECCLESIALE

Per uscire e vivere l’annuncio, bisogna avere un forte ancoraggio ecclesiale, perché è la comunità che evangelizza, e noi evangelizziamo a suo nome. Un evangelizzatore è un esponente ecclesiale, non è un fissato, non è un cavallo pazzo nella prateria, che porta in sé l’impegno di tutta la comunità.

Questo riguarda specialmente i laici, che devono assumere responsabilità in campo sociale, civile, economico, politico. Una fede che “esce” si pronuncia in questi campi. Un laico in uscita deve portare con sé la stima, il mandato dell’intera comunità, e deve anche mantenere l’interiore distacco da quello che tratta. Egli deve servire senza ritagliarsi feudi, restare libero dallo spirito di possesso, mantenere il senso del relativo, fare scelte non assolute, che abbiano come loro risultato il produrre una parzialità di bene.

Una Chiesa in uscita deve essere quindi una Chiesa corresponsabile: formata da persone responsabili di se stesse e che esigono questa responsabilità negli altri. Non si può partire dalla irresponsabilità altrui per giustificare le proprie. Solo più responsabili fanno corresponsabili. Inoltre, la responsabilità si radica con una scelta condivisa nel suo maturare da parte dei laici e dei presbiteri, ed esige da ambedue le parti il superamento del clericalismo. Unica unità di misura è Gesù Cristo, sacerdote per sempre ma laico.

La corresponsabilità vuol dire assunzione di relazioni mature gli uni verso gli altri, la capacità di parlarsi francamente, di non ridere alle spalle, di non fare il gioco della sponda, non scavare buchette per farci cadere l’altro, non lasciarci giocare troppo nelle relazioni dalle emozioni affettive, né da quelle strategiche o di calcolo, mettere in conto che per essere comunità corresponsabile occorre clima di fatica e a volte di pena, perché normalmente siamo opachi gli uni davanti agli altri, e occorrono due virtù che appaiono un ossimoro, il coraggio e la pazienza messi insieme.

E occorrono luoghi dove la comunità produca, che sono gli organismi di partecipazione ecclesiale, primo fra tutti il consiglio pastorale: non cinghia di trasmissione, non platea di consenso, non sindacato sempre arrabbiato, ma organismo di comunione corresponsabile.

LA PARROCCHIA COME “LUOGO TIPICO” PER L’AC

L’Azione Cattolica sceglie la parrocchia come luogo tipico e capitale per attuare la scelta del primo annuncio, perché crede che la parrocchia abbia la vitalità per essere protagonista di questa nuova stagione.

Sceglie la parrocchia come struttura tipica dell’uscire, perché essa è generazione e vicinanza fra generazioni diverse, categorie sociali diverse, perché incontra il cammino dei poveri, degli ammalati, dei disagiati, perché è luogo valido di presenza capillare sul territorio, di vicinanza alla vita della gente, di presenza con le periferie umane presenti sul territorio.

L’AC ha tutte le carte in regola per riformularsi come comunità cristiana in uscita, e sceglie questo per riformare la parrocchia per il servizio nuovo dell’uscire.

foto (4)IL RUOLO MODERNO DEI LAICI

La figura non certo esclusiva, ma tipica di una chiesa in uscita, non è il prete, il frate, il religioso, ma il laico. Perché?

L’Evangelizzazione dell’Europa del nord fu fatta dai monaci irlandesi, quella del nuovo mondo nel XVI secolo fu fatta dagli ordini religiosi, quella dell’Europa post cristiana sarà fatta dai laici, missionari tipici (non esclusivi) di questa nuova evangelizzazione.

La Chiesa uscirà sui piedi dei laici o non uscirà. Questo perché:
1) il primo annuncio avviene nella categoria della relazione personale (non più fra singolo e massa), a tu per tu, che avviene nei crocicchi e non nelle piazze, negli incontri casuali dell’esistenza, dove ciascuno propone il suo mondo motivazionale;
2) questo annuncio non ha rete di protezione nei confronti delle sfide, delle problematiche del tempo, è portato non da chi ha altre pratiche di vita (il monaco, il prete), è separato, ma da chi ha gli stessi problemi degli uomini comuni, non ha reti di sicurezza ma compie la traversata come lo compi tu. La similitudine di vita conferisce la credibilità e apre le porte per l’ascolto e la comunicazione;
3) il laico è capace di far vedere il Vangelo con la vita normale, da dentro il tessuto stesso della vita, ponendo il gesto dell’aiuto fraterno, dell’aiuto agli altri, ed è qui che fiorisce il deserto e dà capacità evangelizzatrice a ciò che si fa.

Allora bisogna che i laici siano tuffati dentro il mondo, dentro la vita… (Mosè…esci dalla tua terra; Giosuè ….vai avanti come esploratore della terra promessa verso cui Mosè dovrà condurre il popolo). I laici portano il Vangelo verso la vita che conoscono, con atteggiamento di stima, di simpatia.

Non si può evangelizzare disprezzando l’interlocutore, ma bisogna averne simpatia, non con l’ossessione di convincerlo (tu cerchi il tuo trionfo), ma con l’ascolto, la percezione delle sue strade già orientate verso il Vangelo, le buone disposizioni, e con la stima, con l’empatia e non con la condanna.

Se l’Azione Cattolica è una casa, un momento più intenso di Chiesa dentro le nostre chiese, allora ha anche il compito di prendere l’iniziativa, di superare le abitudini stanche, il torpore spirituale, senza dimenticare che è necessario uscire e che esce per primo colui che ha una sicurezza di una casa.

La casa noi ce l’abbiamo, e la sentiamo nostra. Possiamo allora uscire, per raccontare la bellezza di una casa a chi una casa non ce l’ha.

a cura di Gian Piero Saladino

+ Intervista a S.E. Mons. Mansueto Bianchi
Domenica 6 Dicembre 2016 si è tenuto a Ragusa, presso il Teatro “Don Bosco”, il convegno organizzato dall’Azione Cattolica della diocesi di Ragusa, sul tema “Laici in uscita. Primo annuncio e segni dei tempi”. Abbiamo avuto l’onore di rivolgere un’intervista, presso gli studi di Radio Karis, all’illustre relatore dell’incontro, S.E. Mons. Mansueto Bianchi, che dal 2014 ricopre l’incarico di assistente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana. Papa Francesco vuole una “Chiesa in uscita”; come, i laici di Azione Cattolica, possono percorrere la strada tracciata dal Santo Padre? «Direi prima di tutto che i laici di Azione Cattolica hanno il compito e la sfida prioritaria di farsi carico di questo affidamento che il Papa ha consegnato alla Chiesa, in particolare alla Chiesa italiana, perché l’Azione Cattolica intende stare dentro la comunità ecclesiale non come un movimento, un’associazione a parte o collaterale, ma sta dentro la comunità ecclesiale, quindi la diocesi e quindi la parrocchia, come un momento particolarmente intenso di Chiesa; è come se nell’Azione Cattolica la Chiesa si “coagulasse”. Laddove la Chiesa viene chiamata ad essere una “Chiesa in uscita”, l’Azione Cattolica per prima deve assumere questa caratteristica e deve assumere anche questo tracciato e farsene promotrice dentro la parrocchia, dentro la diocesi, in modo da essere lei per prima una forza che orienta e sostiene il cammino dei fratelli, proprio sulla strada che ci dice il Papa. Ma cosa vuol dire essere una “Chiesa in uscita? Io la sintetizzerei con questa espressione: guardiamoci con gli occhi di quelli che in Chiesa non verrebbero mai. Noi siamo abituati a guardarci con i nostri occhi, a leggerci con i nostri alfabeti, a giudicarci con i nostri criteri. Cerchiamo invece di guardarci con gli occhi di coloro ai quali siamo destinati, coloro per i quali esistiamo, perché la Chiesa è per il mondo, non è per se stessa, è per la salvezza del mondo! Allora guardiamoci con gli occhi di coloro che non ci appartengono, coloro che non sono parte dei nostri circuiti, delle nostre comunità. Guardiamoci con gli occhi dei lontani, di coloro che sono all’esterno, per capire che tipo di messaggio trasmettiamo, che tipo di volto abbiamo davanti a loro e come è il Vangelo di Gesù Cristo letto e visto con i loro occhi, sulla nostra faccia. Questa credo sia la grande sfida di Papa Francesco, di formularci come “Chiesa in uscita”». Quali indicazioni è necessario dare, perché il primo annuncio possa portare frutto? «Una “Chiesa in uscita” ha alcune caratteristiche: è una Chiesa “Chiesa”; non è semplicemente una folla di persone ma è una comunità di persone, cioè un gruppo di persone che si vogliono bene. Non si vogliono bene semplicemente perchè simpatiche, ma si vogliono bene a motivo della scelta di Gesù Cristo e della fede nel Vangelo. Questo essere un gruppo di persone che si vogliono bene nonostante la diversità, nonostante mille motivi per dividersi o contrapporsi, è già un annunci, una proposta di Vangelo in mezzo alla gente, soprattutto in mondo sfarinato, sgretolato, ridotto a cascata di coriandoli, come quello nel quale noi oggi viviamo. Una “Chiesa in Uscita” inoltre, vuole dire una Chiesa che si preoccupa di mettersi accanto alle persone; quindi di stare dentro la vita, non di realizzare momenti esterni o paralleli alla vita o addirittura alternativi alla vita della gente, ma quello di entrare dentro la vita della gente, nei capillari delle vicende dei nostri paesi e delle nostre città, per far vedere lì, con la fisionomia e la vita dei cristiani, con il nostro modo di stare insieme e dentro, quanto il Vangelo fa spuntare le ali l’umanità, le fa volare, cioè le rende più umane. C’è un terzo elemento che vorrei aggiungere: una Chiesa in uscita, cioè una Chiesa che va verso la gente, prende la gente così com’è. Noi non possiamo fare dei concorsi selettivi per entrare nella Chiesa, perché la realtà non la stabiliamo noi, la realtà è quella che è, bella o brutta che sia la realtà è quella e quella dobbiamo assumere, per quella dobbiamo spenderci, da lì dobbiamo partire. Metterci dentro la vita vuol dire prendere la gente così com’è! Alla gente così com’è, con le risorse e anche con le ferite che ha, dobbiamo cercare di offrire il Vangelo del Signore. Questo, tradotto in linguaggio concreto, semplice e operativo, vuol dire andare incontro alla gente con un grande atteggiamento di misericordia. Quando la gente dice “Chiesa”, non può pensare prima di tutto ad una struttura, ad un’organizzazione, ad una burocrazia religiosa, a una serie di precetti, di osservanze e di adempimenti, ma bisogna che pensi prima di tutto ad una casa, a un’accoglienza, a un luogo dove sei atteso, desiderato, dove se non ci sei ci manchi! Lo stile della missione, lo stile del primo annuncio, è necessariamente lo stile della misericordia cioè, abbracciare la realtà, abbracciare le persone così come sono e mostrare quanto il Signore crede in loro e quanto il Signore attende, chiama, chiede ma anche dona a ciascuno di loro». Lei è stato coinvolto in prima persona nel convegno ecclesiale che si è svolto a Firenze lo scorso novembre; cosa porta con sé di questa esperienza? «Porto tre cose: l’esperienza dei tavolini; vale a dire di questo aver lavorato in gruppi di dieci persone in cui ciascuno può dire:” io al convegno ho parlato, io al convegno ho detto quello che pensavo. In mezzo a 2550 partecipanti è risuonata la mia voce”. Questo ha fatto sentire ciascuno protagonista; ciascuno ha potuto in qualche modo prendere in mano la vicenda del convegno. La seconda cosa che porto con me, come grande ricordo, grande esperienza, è stato il discorso che Papa Francesco ha fatto in Santa Maria del Fiore. Questo essersi rivolto alla Chiesa in Italia, dicendo con molta chiarezza su quali strade è attesa e quali scelte deve sinodalmente intraprendere, assumere e percorrere. La terza cosa, ed è un’esperienza di sintesi, è che in questi momenti si tocca con mano la Chiesa, perché la cosa che più rimane non è tanto quella frase, quel momento o quel luogo, ma è la percezione, la sensazione, l’esperienza dell’essere stati un popolo, dell’aver vissuto una vicenda che ha fatto popolo e nella quale come popolo ci siamo espressi: la Chiesa toccata con mano. Uno che è stato a Firenze, ha tuffato le mani dentro la Chiesa». Come può l’Azione Cattolica aiutare la Chiesa italiana a tradurre in realtà concreta gli impegni presi a Firenze? «Il papa ci ha detto come impegno questo: la Chiesa italiana riprenda in mano l’Evangelii Gaudium e sulla scia di quello che a Firenze è stato riflettuto, dibattuto e anche sperimentato, faccia le sue scelte. Scelga alcuni percorsi concreti nei quali si riconosce e che le sembrano essere particolari attuali e incisivi per la stagione che sta vivendo la Chiesa qui in Italia. Questo procedimento di scelta, di focalizzazione di alcuni punti e anche di inizio di cammino su quelle strade intraviste, sia un processo sinodale, sia una vicenda sinodale, cioè una vicenda in cui tutta la comunità è coinvolta; una vicenda che risulta dalla sensibilità, dalla scelta, dalla preghiera e dalla riflessione di tutta quanta la comunità, in modo che la comunità stessa sperimenti di vivere per la presenza di tutti, con la partecipazione di tutti». di Riccardo Spatola – Radio Kàris Ragusa

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"Insieme" esce col n° 0 l'8 dicembre del 1984. Da allora la redazione è stata la "casa di formazione" per tanti giovani che hanno collaborato con passione ed impegno.



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