Pubblicato il 28 Gennaio 2016 | di Redazione
0I “maestri” e la scuola nel libro di Tamburino
Mario Tamburino con passione ed acribia filologica esamina nel suo ultimo volume “La scuola nel romanzo di formazione del ventesimo secolo” le opere maggiori di Musil, Joyce e Salinger.
La preoccupazione dell’autore è innanzitutto di natura culturale e non meramente educativo-pedagogica. Tamburino ha fatto suo l’insegnamento di Musil secondo il quale le lezioni non si possono ridurre a «spiegazioni giuste e irrilevanti». I discenti non hanno bisogno in primo luogo di «trattazioni chiare ed esaustive», ma della figura di un “maestro” che da tutto prende spunto per affrontare l’ineludibile “magna quaestio” dell’esistenza. «Insegnare – ha scritto Marilucia Sciacco – è trasmettere ciò che si è attraverso ciò che si sa». Un tale impegno pertanto comporta che l’educazione, come acutamente ha avvertito don Giussani è «un rischio».
L’insegnante non è dunque colui che versa come in un vaso il proprio sapere, ma piuttosto chi sa trasmettere la curiositas nell’accezione etimologica del termine ai propri allievi e richiama «a ciò che oltrepassa la capacità dell’intelletto».
Lasciando all’attento lettore il piacere dell’analisi che Tamburino fa de “I turbamenti del giovane Tӧrles” di Musil, de “Ritratto dell’artista da giovane” di Joyce e de “Il mito dell’auto-formazione” in Salinger, c’è da osservare che i capolavori analizzati, non proponendo una figura di maestro, attestano, loro malgrado, quanto sia deleteria dal punto di vista formativo la mancanza di punti di punti di riferimento, soprattutto in un contesto culturale in cui sono stati esautorati pilastri sociali quali la famiglia e la scuola.
L’insegnante è chiamato dunque a non riempire gli allievi, come se fossero dei vasi, della propria cultura, ma a testimoniare una ragione di vita.
di Enrico Piscione