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Pubblicato il 21 Marzo 2016 | di Lettera in Redazione

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IL TEMPO DELL’ATTESA

Riceviamo e volentieri pubblichiamo uno scritto di Giovanni Corallo intitolato”Il tempo dell’attesa” come augurio della prossima Santa Pasqua

Un sole caldo riscalda ed esalta i colori della facciata della maestosa abbazia di Morimondo (nella foto). Sedute sul muretto che delimita in parte il sagrato, alcune persone guardano incantate lo spettacolo, silenziose ed immobili come lucertole al sole. Colore dominante il rosso dei mattoni, punteggiato qua e là dal luccichio delle bianche formelle e rinfrescato da squarci di cielo imprigionati da finte finestre ad arco che abbelliscono la parte alta della facciata.

E’ vigilia di Pasqua, un tempo sospeso tra la certezza della passione e della morte e l’attesa della resurrezione. Così è nella liturgia che ogni anno si ripete, metafora di un’esistenza che non sempre riesce a trasformare il tempo dell’attesa in tempo della preparazione e, perché no, dell’anticipo di elementi e di segni di resurrezione. Ogni volta che nel mondo si affermano frammenti di giustizia, brandelli di pace, gesti di solidarietà verso persone conosciute o sconosciute, ogni volta che la bellezza creativa si diffonde fra i popoli assieme all’intelligenza che studia il mondo per il mondo e per chi ci vive, possiamo parlare di resurrezione, di “pasqua” nel senso etimologico del termine ossia “passaggio” dalla morte, quella interiore (Francesco d’Assisi la chiama” morte secunda”) alla vita. 

+ “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. (Italo Calvino)

Così, tra una riflessione e l’altra, mi aggiro fra i campi che circondano Morimondo, fra canali e filari di alberi fino a quando non decido di raggiungere un’altra località poco lontana, meta negli anni passati di escursioni in bicicletta: parlo di Fallavecchia e del suggestivo ponte spagnolo a dorso d’asino.

C’è una scorciatoia che permette di raggiungere il ponte senza fare il giro da Fallavecchia, l’ho scoperta per caso tempo fa.

Mi ricorderò?

La memoria non mi ha tradito, il ponte si erge davanti a me sul canale,  in prossimità di un salto che provoca una piacevole cascata il cui rumore e la cui vista hanno il potere di rinfrescarmi, rasserenarmi e ricaricarmi. Non sono il solo, una figura scura occupa la cima del ponte, una persona anziana, corpulenta, un uomo con una vecchia bicicletta da donna, fuma una sigaretta e porta un copricapo tipico della gente del sud.

Mi avvicino lentamente, ci salutiamo, mi fermo anch’io a guardare l’acqua del canale là dove fra schiume e spruzzi compie il salto.

E così, spontaneamente, quasi seguisse il corso dell’acqua, inizia il nostro dialogo sui soliti argomenti che possono affrontare due persone che si vedono per la prima volta: il tempo, il territorio, il piacere di girare in bicicletta, gli acciacchi dovuti all’età e così via. Farina, così si chiama il mio occasionale interlocutore, parla con accento marcatamente siciliano il suo italiano versione lombarda, tipico della bassa milanese. Mi guarda con i suoi occhi grandi e tristi e mi racconta vicende importanti della sua vita (l’emigrazione da Mazara del Vallo nei primi anni ’60, la ricerca del lavoro, la sistemazione sua e, molto tempo dopo, quella dei suoi tre figli maschi, uno dei quali morto a 32 anni).

Lo ascolto in silenzio, rispetto le sue pause a volte talmente lunghe da far pensare alla fine del racconto che, invece, puntualmente riprende. Non fa domande se non per chiedere da quale paese della Sicilia provengo. Accarezza ogni tanto la sua bicicletta nera che gli permette di muoversi per la campagna e di fare quella ginnastica terapeutica, per favorire la circolazione sanguigna, che gli ha tanto raccomandato la sua dottoressa (“Farina, non smetta di muoversi, mi raccomando!”).

“Brutta cosa la solitudine a 80 anni! Due anni fa mia moglie si è ammalata, non c’è stato niente da fare… Per un uomo la donna è tutto, i figli venivano a casa per lei… adesso li vedo ogni tanto…”

Infila una mano in tasca e mi porge un ricordino della moglie, una foto a colori che mostra un volto semplice, dei lineamenti dolci con un sorriso appena abbozzato.

“Guarda… era ancora bella!”

I suoi occhi acquosi diventano lucidi, il respiro affannoso, non so fare di meglio che mettergli una mano sulla spalla. Un’auto di passaggio sul ponte spagnolo attira la nostra attenzione sottraendoci a quell’intensa emozione.

Non ci sentiamo più sconosciuti anche se quasi certamente non ci rivedremo più. Il nostro non è un incontro ma l’unico incontro che ci è concesso, ne siamo consapevoli entrambi e non c’è tempo per le finzioni.

Ci salutiamo, mi dirigo verso l’auto, Farina accende l’ultima sigaretta prima di inforcare la bicicletta e riprendere la via di casa mentre le ombre della sera si avvicinano a grandi passi.




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