Pubblicato il 13 Settembre 2016 | di Redazione
0Giornalismo: da dove ripartire
di Paolo Costa
La crisi del giornalismo è nota da tempo e si manifesta in forma sempre più acuta. Va detto che l’idea di giornalismo e della sua funzione non è la stessa in tutto il mondo. Quindi quando parliamo di crisi del giornalismo ci riferiamo in particolare al modello di tradizione liberale, democratica e pluralista. La questione del ruolo (a che cosa serve il giornalismo) e il problema della sostenibilità economica (come si ripaga il prodotto giornalistico) si pongono in termini drammatici. In entrambi i casi l’innovazione tecnologica ha avuto un effetto dirompente, come già era accaduto in passato: nell’Ottocento con l’avvento della tipografia industriale, nel Novecento con la nascita della radio e della televisione. Oggi sono i cosiddetti nuovi media i grandi accusati, in uno scenario di distruzione non sempre creativa.
Senza la pretesa di fornire soluzioni facili, credo che convenga partire dal tema del ruolo. Prima dimostriamo che, rinnovandosi, il giornalismo serve ancora a qualcosa. Poi troveremo il modo di remunerarlo. Viceversa è difficile continuare a farsi pagare per una funzione il cui valore non è più riconosciuto. Per compiere questo passaggio, tuttavia, è necessario comprendere i cambiamenti in atto e il ruolo che vi gioca la tecnologia. L’errore principale, tuttora diffuso soprattutto in Italia, è considerare Internet un nuovo mezzo per diffondere un vecchio prodotto: la notizia.
Per molto tempo, la notizia è stata il frutto del lavoro intellettuale di una figura ben definita sul piano professionale: il giornalista, appunto. Il giornalista aveva un mestiere, delle capacità, una deontologia. Per questo l’opinione pubblica gli affidava il compito di analizzare e riportare criticamente i fatti, ossia le cose che accadono nel mondo. In una prospettiva sostanziale, la notizia era un testo – scritto, parlato o composto da immagini – che trovava la sua collocazione all’interno di uno spazio editoriale (la testata) e di un menabò, una gabbia o un flusso programmato. Autore, forma testuale e collocazione costituivano la garanzia di senso della notizia. Non c’era “la notizia”; c’era “la notizia firmata dal tal giornalista, appartenente alla tale testata e collocata nella tal pagina o flusso con il tale taglio e rilievo”.
Se guardiamo a ciò che la notizia sta diventando, vediamo profondi cambiamenti relativi a ciascuna delle tre dimensioni. Cambia la natura fisica della notizia, cambia la posizione della figura professionale che la produce, cambiano le caratteristiche dello spazio editoriale che la contiene e la trasmette.
Perché queste trasformazioni? Si diceva che la notizia è un testo, che si può presentare in forma scritta, pronunciata o visuale. Andare online non significa, banalmente, prendere quel testo è metterlo in Rete. Di mezzo c’è il digitale. Il testo in formato digitale è un contenuto reso in forma numerica. Esso presenta diverse caratteristiche peculiari, a maggior ragione quando si trova a circolare in Rete. Il digitale è dunque ciò che si chiama “driver del cambiamento”.
Innanzi col digitale tutto il supporto fisico della notizia diventa facilmente manipolabile, ossia può essere scomposto e declinato in infinite varianti. Un tempo la notizia, terminata la sua lavorazione, veniva licenziata per la stampa, messa in onda, trasmessa. Oggi non smette più di essere lavorata, anche dopo la pubblicazione. Bastano semplici strumenti di post-produzione, alla portata anche di chi ha scarsa dimestichezza con l’informatica. E se non lo fa il giornalista, lo fanno altri, magari con meno competenze. Tutti copiano, incollano, interpolano, condividono qualsiasi notizia fuori dal contesto di origine e senza un sostanziale controllo.
Il giornalista è sempre meno ideatore di contenuti originali, sempre più post-produttore di contenuti già creati. Egli seleziona, analizza e aggrega. In ciò può trovare un nuovo ruolo e una nuova dimensione professionale. Deve trovare i contenuti giusti in un universo sovraccarico di rumore, deve interpretarli e collocarli in una cornice di senso, fornendo al suo pubblico strumenti e chiavi di lettura. A volte il contenuto giusto è solo un tweet, magari nascosto fra milioni di altri tweet.
Simile in ciò a un disc-jockey, il giornalista dell’era digitale non crea. Semmai mette in sequenza ciò che c’è già. E, se riesce a farlo bene, può diventare una star. Come è capitato tra il 2010 e il 2011 a Andy Carvin, che da analista di NPR – la radio pubblica americana – aiutò il mondo intero a interpretare la Primavera araba attraverso un formidabile lavoro di cura in tempo reale dei flussi informativi su Twitter.
Ma la notizia nella sua forma digitale ha anche altre caratteristiche. In primo luogo è gestibile in modo in gran parte automatico. Molte fasi del processo di produzione e di distribuzione del contenuto possono essere sottratte all’intenzionalità umana. Il giornalista è sempre più ingegnere di processo. Poi la notizia è transcodificabile, ossia può essere trasferita da un formato all’altro e da una piattaforma all’altra. Pensiamo a canali di distribuzione ibridi come web radio, web tv e podcasting. Dunque o il giornalista è multimediale, o non è.
Una ulteriore caratteristica del contenuto digitale e il fatto di essere classificabile e ricercabile. Nel mondo dei nuovi media ogni contenuto viaggia accompagnato da una ricchezza nascosta: un insieme di metadati, ossia una serie di informazioni su di esso. Sono proprio i metadati che permettono di reperire un contenuto e di sapere di che cosa si tratta. Ecco perché il giornalista non deve produrre solo contenuti, ma anche dati sui contenuti.
Il paradigma digitale, dicevamo, cambia anche la posizione del giornalista in quanto figura professionale. Il ruolo del giornalista come mediatore critico tra fatto e pubblico appare in discussione in molti contesti. Ciò accade per tre ragioni.
La prima di esse è che le tecnologie telematiche rendono agevole la registrazione di ogni evento e la sua diffusione in tempo reale e senza limiti di distanza. Ciò causa, in molte circostanze, la disintermediazione del giornalista e la scomparsa della notizia: il fatto raggiunge direttamente il pubblico; oppure il pubblico raggiunge direttamente il fatto.
La seconda dinamica è quella che vede un nuovo ruolo del pubblico: non più mero consumatore di notizie, ma sempre più spesso agente attivo del processo di produzione, post-produzione e distribuzione.
Infine la riduzione del tempo medio che intercorre fra l’accadimento del fatto e il consumo della notizia è drammatica. Tutto si consuma in tempo reale, non solo le informazioni relative a eventi drammatici (attentati, terremoti, …) ma anche di natura politica (risultati elettorali, dichiarazioni dei leader, …) e “soft” (competizioni sportive, eventi culturali, …) A causa di ciò, la produzione della notizia è sempre meno sorvegliata: non c’è tempo di verificare le fonti, non c’è tempo di rileggere, non c’è tempo di riflettere.
In questo contesto, come cambiano le caratteristiche dello spazio editoriale? Fino a ieri lo spazio editoriale era garante di senso del prodotto giornalistico. Il contenuto giornalistico risultava credibile nella misura in cui era associato alla firma di un professionista, al nome di una testata e a specifiche scelte di collocazione all’interno della testata stessa. Il prodotto giornalistico era racchiuso entro una cornice che lo rendeva interpretabile e, al tempo stesso, lo connotava ideologicamente e politicamente.
Oggi il prodotto giornalistico viene fruito sempre di più privo di questa cornice, ossia fuori dal suo spazio editoriale. Il pubblico non consuma più il prodotto editoriale nel suo insieme (il quotidiano a stampa, il giornale radiofonico, il notiziario televisivo, il sito web, …) ma il singolo contenuto, che raggiunge utilizzando motori di ricerca, piattaforme di social networking, telecomandi. Il pubblico seleziona le notizie che gli appaiono più appetitose, come un ape che si posa di fiore in fiore alla ricerca del nettare migliore. D’altra parte pubblicare notizie significa attivare un processo diasporico, farle uscire di casa (la testata-contenitore) mandarle in giro per la rete (piattaforme di social networking, feed RSS, aggregatori, …). Pensiamo all’uso sempre più massiccio che New York Times, Guardian e altre testate globali fanno di canali come Snapchat o Facebook Live.
È possibile che la tradizionale missione di mediatore critico tra fatto e pubblico si arricchisca di nuove funzioni? Io credo di sì. A patto che si prendano sul serio le nuove funzioni del giornalismo che ho descritto prima: lavoro di post-produzione e cura dei contenuti da un lato, gestione dei dati dall’altro. E ci sono casi di successo, che vale la pena di menzionare. Essi rappresentano le prime manifestazioni di ciò che il giornalismo potrebbe diventare.
È di grande interesse, per esempio, il lavoro di Reported.ly. Si tratta di una piattaforma lanciata due anni fa da un team internazionale di giornalisti (ne fanno parte, fra gli altri, il già citato Andy Carvin e l’italiana Marina Petrillo). Reported.ly è ancora in fase di test, ma ha un obiettivo ambizioso: usare i social media come fonte di informazioni e non come lusinga. Non si tratta di attirare audience sul proprio sito, ma di aiutare i lettori a districarsi fra le notizie che popolano Facebook, Twitter e Reddit. Un lavoro di verifica delle fonti, selezione e cura de contenuti, insomma.
Ci sono poi alcuni esempi eccellenti di data journalism. A livello mondiale spicca il caso del Guardian, che lavora in questa direzione ormai da cinque anni. Qui lo sforzo è di produrre un nuovo genere di notizie, alimentate da enormi quantità di dati elaborabili solo in modo automatico. Straordinario il contributo fornito con questo approccio alla comprensione delle rivolte di Londra del 2011.
Anche in Italia ci si muove. Il Sole 24 Ore ha messo in piedi Info Data Blog, un’esperienza coordinata da Luca Tremolada che si muove per ora con una certa timidezza, in attesa di integrare pienamente il mondo del giornalismo con quello dei big data.