Cultura

Pubblicato il 7 Novembre 2016 | di Mario Tamburino

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La vita che riaffiora nei racconti di Augugliaro

A cosa servono gli scrittori nell’epoca che il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha definito dell’“insicurezza” e della “paura”?

La maggior parte degli autori contemporanei si compiace di descrivere i tratti sfigurati dei volti dell’umanità ferita che popola quella “terra desolata” che è il tempo in cui viviamo. Maria Giovanna Augugliaro, autrice della raccolta di racconti “L’anagramma della vita”, non si limita a fare proprio il dolore e la confusione del presente, ma ne cerca il significato.

È un mondo magico quello creato dalla scrittrice catanese alla sua prima fatica, espresso in un tono spesso fiabesco. E, tuttavia, le immagini incantate delle creaturine che abitano l’universo di Maria Giovanna Augugliaro, popolato da ex formiche regine e bruchi, da sagge mamme-testuggine, maghi ciarlatani e da fragili fanciulli, si scontrano, sotto la superficie dell’affabulazione linguistica, con la realtà tremendamente incombente delle circostanze che descrive. Un urto che accade sotto la superficie del testo e che genera uno stridore che solo un’umanità adulta, e non un bambino, può comprendere e fare proprio.

Ma se, per pregiudizio, questi personaggi fantastici ci dovessero apparire poco consoni all’età adulta, i luoghi in cui le loro storie si consumano cadono, invece, certamente dentro l’orizzonte della nostra esperienza umana. Chi, infatti, non ha mai rischiato di essere risucchiato dal “pantano della malinconia”, o di perdersi nell’ “esteso campo della rinuncia”?

«Non mi interessa che il racconto parli di me – ha affermato Maria Giovanna Augugliaro durante alla presentazione del suo libro, a Marina di Ragusa nel corso di uno degli incontri proposti all’interno dell’estate ragusana da Centro Socio Culturale Ibleo – mi importa che parlino di “te”». In questa tensione, sempre originale ed arguta, a cogliere la vita laddove essa continua a sorprenderci e a squassare le categorie con cui cerchiamo di imbrigliarla sta la qualità letteraria di Augugliaro.

Nei racconti che compongono “L’anagramma della vita” tutto accade all’improvviso e senza preamboli. Nel breve volgere di poche pagine la vita irrompe, travolge e cambia. E tuttavia, sembra che quella circostanza imprevista sia preceduta da una tensione potente e nascosta che esplodendo all’improvviso, rivela chi siamo davvero – per così dire- nonostante noi stessi. Proprio per questa ragione, come accade alla Quercia e al Giunco in uno dei racconti, l’io «si rivela nel fuoco e nella tempesta». «Il cuore infatti non è solo bellezza – spiega la scrittrice catanese – c’è la tentazione, ed anche il desiderio più puro può corrompersi».

Il significato dell’esistenza, cioè, non lo si trova nell’analisi. Esso si lascia intravedere nell’apparente casualità di un incontro. Accade così ai due fratelli Men e An: solo il sopraggiungere dell’ospite inatteso mostrerà loro il tesoro nascosto in uno dei meandri della caverna in cui vivono e nel quale, da soli, non avevano mai avuto il coraggio di addentrarsi.

È sempre una presenza amica a vincere l’incertezza e la paura. Nell’abbraccio di una compagnia non sono le circostanze a cambiare, è lo sguardo. L’ippopotamo protagonista di uno dei racconti della raccolta non si trasformerà mai nella farfalla che sognava di diventare. La realtà resta la stessa anche nella sua drammaticità, eppure gli occhi che la guardano possono sorprendersi pieni di stupore per ciò che c’è. Fino alla scoperta più sconcertante per chi non teme di interrogarsi sul senso delle cose: «Come è possibile che il guardiano della vita sia stato il dolore»?

 

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