Società

Pubblicato il 25 Dicembre 2016 | di Mario Tamburino

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La scuola finestra sulla realtà dei bambini-soldato

«Good morning folks. Take your books!». Questa volta, però, i miei alunni non eseguono diligentemente l’invito a tirar fuori i libri. «Un momento prof – mi dice Ritamaria –. La classe ha deciso di donare qualcosa all’associazione della signora che abbiamo incontrato in auditorium l’altro giorno, ma non sappiamo come. Ci aiuta?».  C’è un’unica cosa capace di mobilitare dei ragazzi: un incontro.

Per i miei alunni è stato il dialogo con Lucia Castelli, pediatra milanese, da oltre vent’anni impegnata in Africa, per Avsi (una organizzazione non governativa sorta nel 1972 e presente oggi in 30 Paesi ) nel recupero sociale e psicologico di ex bambini soldato in Uganda prima e, nell’assistenza dei profughi siriani, in Libano poi. Ospite del liceo classico Umberto I, lunedì 6 dicembre, il racconto della sua esperienza è stata un’occasione di fare della scuola ciò che deve essere, cioè una finestra sul mondo e sul suo significato.

Le immagini con cui la dottoressa presenta ai ragazzi le tappe della sua vita nel Grande continente sono quelle di una incomparabile bellezza. Dominano i colori del rosso della terra, del verde della natura, le enormi distese blu del lago Vittoria, insieme all’opacità della miseria e del male degli uomini.

«Sono arrivata in Africa nel 1994, all’indomani del genocidio della popolazione Tutsi, in Ruanda» racconta, «e poi in Uganda, dove la guerra civile alla frontiera con il Sudan aveva determinato un proliferare di bande che, per rimpinguare le proprie file, non esitavano a rapire bambini per farne delle spietate macchine di morte. Impiegati di notte negli attacchi ai villaggi, molti dei 25000 bambini rapiti tra il 1986 e il 2006, riuscivano a fuggire». Ma chi scappava portava con sé ferite profonde. «Se uno di loro veniva sorpreso a tentare la fuga i compagni erano costretti ad ucciderlo a bastonate». Una crudeltà studiata, a cui gli adulti non si esponevano, affinché il senso di colpa del bambino lo dilaniasse, lasciandolo ancora più esposto alle manipolazioni dei guerriglieri.

Nei disegni di questi ex-bambini soldato tante case. Case bruciate dai ribelli nel loro passato e case belle, accoglienti, nella proiezione del proprio futuro. «Occorre dare a questi ragazzini – spiega Lucia Castelli – l’idea che il male c’è stato, e il bambino ne porta il senso di colpa per averlo commesso benché costretto, ma che non è l’ultima parola sulla vita. E questo lo capisce se il cammino lo fa insieme ad uno che lo accoglie».

È il fare insieme che rimette tutto nella prospettiva di un percorso. Un metodo che si rivela utile anche nei centri delle organizzazioni non governative che si occupano di educazione alimentare. «Gli unici bambini che ho incontrato in Africa che non sorridevano – confessa la pediatra – sono quelli malnutriti. Per educarli ad una corretta alimentazione affidavamo ogni bimbo ad un compagno più grande. È sempre dentro un rapporto, infatti, che impariamo a prenderci cura di noi stessi». Un’esperienza che si è rivelata utile anche con ragazzi a cui i genitori avevano tramesso l’hiv.

Quando, nel 2011 il progetto in Ruanda si conclude, Erik, che a 11 anni aveva beneficiato di un sostegno a distanza che gli ha permesso di tenere sotto controllo la malattia e che è divenuto nel frattempo uno dei responsabili delle attività di prevenzione per l’Aids, ha affermato: «Avsi  conclude la sua presenza, ma la sua opera continua ora attraverso di noi». «Ecco un esempio di successo – esclama Lucia Castelli – Non l’eliminazione dei problemi, ma la formazione di personalità  capaci di affrontarli».

Il presente della pediatra lombarda è costituito dai campi profughi siriani in Libano. Laddove tutto sembrerebbe dover cospirare contro l’umano, Lucia è testimone di un bene insperato. Primo fra tutti il fatto che «i quattro milioni di libanesi che oggi accolgono due milioni di siriani rifugiati nella loro terra, offrono riparo al popolo che quindici anni fa li aveva invasi con il proprio esercito». «E lei come trova la forza di fare queste cose» chiede Emanuela, terza Liceo, all’ospite, che certo non ha l’aspetto del supereroe. «Non bisogna avere la pretesa di cambiare tutto da soli- è la risposta- Si cambia dentro una disponibilità a condividere il bisogno per come esso si presenta». È il metodo di Avsi, anzi, in tempo di avvento, è un po’ il metodo di Dio il quale facendosi compagno al destino degli uomini non ha cancellato i problemi ma li ha condivisi.

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