Pubblicato il 28 Dicembre 2016 | di Redazione
0Valori forti dell’umanesimo cristiano
Qualche riflessione sul possibile contributo dell’umanesimo cristiano in questo processo di passaggio dall’universalismo astratto dell’antico umanesimo all’universalismo concreto.
Anamnesi: la secolarizzazione, cifra ultima della modernità
1a. La secolarizzazione e l’egocentrismo edonistico dell’uomo d’oggi
La sfida più consistente della modernità alla religione cristiana è certamente rappresentata dal processo culminante della modernità stessa, denominato secolarizzazione, che in generale è stato caratterizzato come un processo non lineare di decostruzione o di separazione del legame tradizionale fra la società e il sacro.
Sono stati infranti i tradizionali nuclei portanti del sacro, attraverso l’assunzione e la validazione di queste prassi:
-il tradimento dell’ospitalità
-la violazione delle coscienze
-la prevaricazione nell’ambito sessuale
-l’uccisione dei consaguinei
-la derisione del divino
Si è cercata la legittimazione di queste violazioni attraverso la proposta e la difesa di nuovi modelli, spesso presentati come i nuovi “diritti umani”: il criterio base è stata la difesa dell’uomo come signore della propria vita e della propria morte, e progressivamente ci si è mossi nella direzione di andare a toccare anche la morte dell’altro. Legge normativa assoluta è diventato il principio di autorealizzazione: il successo individuale, il diritto al godimento soggettivo assume oggi la forma di un vero e proprio “diritto divino”, in senso rovesciato, ossia al singolo si attribuiscono i diritti che spettano come prerogativa a Dio. Non si registra, nel marasma della comunicazione mediatica e politica, alcun interesse per il rispetto di ciò che è il comune sentire degli uomini, di ciò che è umanamente condiviso, dei valori di cui sono portatrici tutte le persone.
1b. L’uso del sacro
Attualmente assistiamo ad un ritorno di attrazione da parte della sfera religiosa, che si presenta come un ritorno alla sfera del sacro arcaico, quello pre-cristiano, che ben si può vedere nella diffusione di variegate sette religiose dedite a pratiche esoteriche, oppure di aggregazioni fatte mediante delle affiliazioni di tipo tribale, sulla base di forti influenze economiche o politiche. Penso in primo luogo a quei movimenti parareligiosi, o talora anche pseudoreligiosi, che creano aggregazioni intorno a temi mitici (come lo spiritismo, o lo spiritualismo naturalistico che divinizza la natura), oppure a pratiche ascetiche (yoga, pratiche di purificazione), oppure a tecniche di meditazione (prevalente la linea di Krishnamurti, che prevede continui esercizi fisici e mentali per liberarsi dai condizionamenti), oppure ancora a tecniche di bodybuilding, comprensive di ginnastiche ed esercizi di combattimento allo scopo di perseguire la perfezione del corpo (molto seguito ha la scuola creata dall’attore Bruce Lee).
Ci sono anche dei movimenti religiosi più noti, dai testimoni di Geova alla Chiesa dell’unificazione, dai Dianetics di Hubbard agli Avventisti.
In questo scenario, il ritorno incontrollato ed autogestito del sacro presenta un rischio, quello del fondamentalismo, o dell’integrismo. Questo rischio può sfiorare anche le grandi religioni monoteiste, e non solo l’ebraismo e l’islamismo, ma anche la religione cristiana. Il fondamentalismo si presenta quando si demanda tutto a un nucleo autorevole di verità, che però viene assunto senza essere declinato con una riflessione teologica e con la problematica antropologica comprensiva della vita intellettuale, morale e fisica del soggetto. La deriva del fondamentalismo è il collateralismo, ossia il trasferimento dei valori religiosi, dei valori del sacro, sul piano degli schieramenti politici: questa deriva è quella che comunemente viene chiamata la “tentazione neoguelfa”, per quanto riguarda l’Italia.
Di fronte a questo prospetto sommario, per l’approfondimento dei singoli aspetti del tema, rinvio al recentissimo volume di Luciano Nicastro, La buona politica e la casa comune. Breve trattato di filosofia politica di ispirazione cristiana (2015); sintetizzando, direi che è chiaro che valori religiosi ed impegno politico devono essere permanentemente in dialogo, evitando di usare la religione come “strumento” per la politica, nella quale spesso entrano aspetti economici e interessi di parte che non sono assumibili come valori, mentre come faro per il governo della casa comune va assunto il personalismo cristiano, quella rivoluzione personalista e comunitaria presente nelle opere di Emmanuel Mounier, che da più decenni è al centro dell’impegno intellettuale e politico di Luciano Nicastro.
I valori forti ispirati dal Vangelo e la pratica della fede cristiana
Il compito principale del cristiano oggi, in avanzato stadio di post-modernità e di post-secolarizzazione, è quello di trovare il modo di trasmettere in modo convincente il messaggio evangelico, ossia di attivare le basi per la ricezione della verità del Vangelo, tenendo conto della dimensione storico-culturale in cui ci troviamo.
Linee guida per riflettere su questo compito sono quelle offerte dai documenti del Concilio Vaticano II, e dalle riprese che di essi hanno fatto il magistero pontificio e le conferenze episcopali; in Italia è assai importante il lavoro che in oltre quindici anni ha svolto il progetto culturale della CEI.
Ci concentriamo su uno dei temi, oggi di grande rilevanza etico-politica per la testimonianza cristiana, ed è quello dell’emergenza educativa, prendendo l’espressione a tutto tondo, a 360 gradi, proponendo alcune riflessioni di base utili per inquadrare il problema, sottraendolo alla banalità di una certa divulgazione giornalistica e pastorale. Parlerò secondo la prospettiva che mi compete, quella del filosofo, che va integrata dagli interventi successivi, che ne tratteranno da altri punti di vista, quale quello pedagogico- sociale, oppure quello della comunicazione massmediatica, oppure quello della visione politico-economica connessa con la globalizzazione e con il problema della convivenza in una società sempre più multietnica e multirazziale.
2a. L’emergenza educativa
A fronte della complessa situazione culturale e a partire dalle opportunità che essa può offrire, alcuni punti di riflessione possono valere come contributi che partono dal coinvolgimento della razionalità, in un approccio certamente non esaustivo, ma interessante per affrontare l’emergenza educativa attuale.
Innanzitutto va ribadita la centralità del soggetto (non dell’individuo inteso in senso solipsistico) per riconoscere la propria capacità di verità. Riteniamo che un percorso educativo debba insistere sulla insostituibilità della coscienza nell’attestazione della verità. D’altra parte, la stessa dinamica della Rivelazione cristiana pone la fede, vale a dire l’attestazione della identità divina di Gesù, come suscitata dall’agire di Dio stesso.
Riuscire a riscoprire la centralità del soggetto significa tuttavia arrivare a riconoscere che la verità ci anticipa, non siamo noi a inventarla, ma ci si presenta nella forma dell’appello. Ciò significa che educarsi alla razionalità significa riconoscere questa anticipazione, affermarla come costitutiva del proprio esistere soggettivo. In questo senso l’alterità entra nell’analisi degli esseri capaci di razionalità e di verità, e l’anticipazione della verità pone come centrale la questione dell’altro da me, l’uscita dalla chiusura nel mio io, e quindi il fatto che non si dà razionalità e verità possibile senza l’esercizio della responsabilità, della presa di posizione di fronte alla verità che è l’altro che mi precede.
Un’altra prospettiva culturale che dovrebbe assunta come integrativa di ogni itinerario formativo è la storicità: l’esistenza umana è storica, ciò significa che occorre essere consapevoli che l’itinerario di scoperta della propria capacità di verità ha un tempo, richiede un cammino, ha bisogno di crescere e maturare con la crescita e la maturità del soggetto. Non si può pretendere di avere un accesso intuitivo (immediato) alla verità. L’aspetto positivo di questa situazione è l’esperienza di libertà che la verità ci consente di fare: pensare significa accedere alla verità e scoprire che essa mi si manifesta gradualmente, attendendo tutto il tempo necessario perché rischiari la mia mente e diventi mia appropriazione.
Inoltre dobbiamo riconoscere il fatto che oggi non si può parlare di razionalità, in particolare in ambito educativo, a prescindere dall’esperienza corporea. A partire dall’idea che noi non abbiamo un corpo, ma siamo il nostro corpo, dovremmo riuscire a comprendere l’esperienza della corporeità come comunicazione. Il senso appare perché noi lo sentiamo, ma sentire il senso significa scoprire che la carne, oltre che essere l’esperienza della nostra contingenza, è un’esperienza di apertura, è una strutturale modalità di comunicazione con l’altro che ci raggiunge nella carne. Occorre quindi una sorta di esercizio di discernimento per il quale scopriamo il senso di ciò che noi siamo, nell’atto in cui realizziamo la nostra relazione all’altro e al mondo. La valorizzazione della corporeità e del discernimento del senso di ciò che viviamo, sembra una risorsa importante per ogni istanza educativa che si costruisce servendosi anche delle categorie della razionalità. Mi sia concesso di citare un’espressione che in questi giorni circola a proposito dei migranti: prima che numeri, sono uomini, cioè sono fatti di carne, sangue ed ossa, esattamente come me.
Nel processo educativo occorre prestare attenzione al linguaggio, che tanta parte ha nel trasmettere le proposte valoriali ed educative, e qui insisterei sul modo adeguato di accostare il tema della formalizzazione. Certamente l’essere consapevoli dei fondamenti logici del linguaggio, come anche la necessità di sapere il valore di ciò che nel discorso andiamo ad affermare, per rendere condivisibile e discutibile in un dialogo vero e non fittizio ciò che affermiamo, sembrano essere reali urgenze della cultura contemporanea, anche di quella politica: ne sentiamo acutamente la mancanza in questi ultimi tornanti della politica italiana, dove sembra sparita la connessione delle parole con i valori minimi legati alla dignità della persona umana. Ritengo tuttavia che sia altrettanto importante la consapevolezza che la formalizzazione è solo uno dei momenti dell’esercizio della razionalità e della ricerca della verità; c’è un orizzonte del linguaggio che si estende alla parola rivelata e alla parola interiore, all’agostiniano “verbum cordis”, alla parola che racchiude la voce della coscienza più intima di ogni uomo.
Un ulteriore spunto di riflessione va dedicato all’ideologia e alla complessità. Il pensiero della complessità appare come una consapevolezza nella cultura contemporanea, ma spesso si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una teoria della complessità che risulta essere una sorta di superamento sistemico della soggettività responsabile. Questa prospettiva sembra simile ai tentativi, cui sopra abbiamo fatto riferimento, di risolvere il problema rinviandolo, finendo col seppellire la coscienza come mediazione irrinunciabile del senso. Complessità significa primariamente pazienza del discernimento e ricerca delle prospettive possibili alla prassi umana, e nel discernimento è già implicata la persona; nel sistema si mischiano ideologie che prescindono dalla persona e, con la copertura della complessità, si finisce nella valorizzazione del gioco del caso. Per quanto riguarda l’ideologia, essa va individuata in tutti i sistemi culturali che pretendono di affermare e di realizzare verità sull’uomo, senza il consenso della coscienza. Una sorta di scappatoia fatta di certezze (prodotte da qualcuno), che evitano la maturazione attraverso la libertà e la storicità dell’uomo. Laddove si verificano situazioni culturali di questo tipo, di fatto si preclude il discorso sui valori forti dell’umanesimo e sull’educazione, e iniziano percorsi di imposizione e sottomissione, che subordinano l’uomo a ciò che sarebbe utile per lui, ma senza di lui.
Come si evince dai rapidi spunti di riflessione proposti, una prospettiva educativa generale, dicevamo a tutto tondo, e saldamente ancorata alla razionalità, esige la difesa della centralità dell’uomo, insistendo cioè sulla portata della domanda, di cui ciascuno deve farsi carico, sul senso della vita. Perché questo compito? Non c’è un passaggio deduttivo o critico attraverso il quale qualcosa o qualcuno possa sostituirsi alla libertà della persona o all’esigenza che sia il singolo a porsi la domanda di senso. Forse occorre ritornare alla consapevolezza di questa situazione e ribadire la necessità del “conosci te stesso”, da cui muoveva l’insuperata sapienza pedagogica dell’antichità e prendere le distanze da ogni cultura che pretenda di superarla in vista di sistemi impersonali, tecnocratici o legati alla cultura egemone distillata dai mass-media.
2b. Ritrovare il significato della trascendenza nella dispersione della post-modernità
Un contributo importante può venire dalla riflessione sulle modalità che si devono assumere, facendo leva sull’impegno del credente che si confronta con il Vangelo, atte ad arginare la perdita del senso di Dio e, di conseguenza, dei valori autentici della religione cristiana.
La comunità cristiana non ha altro riferimento che la rivelazione di Gesù Cristo; da essa perciò vanno assunte quelle dimensioni dell’esperienza della fede che possono essere d’aiuto nella ricerca di percorsi in cui si ritrovi la significanza di Dio, in un tempo dove sembra che Dio sia la cosa meno interessante.
Innanzitutto, è importante rimettere al centro della nostra attenzione la rivelazione, nella quale scopriamo che Gesù comunica se stesso non imponendosi, ma donandosi; la sua morte è vissuta da Lui come dedizione incondizionata. Il risorto chiede una sola cosa ai discepoli per accedere alla sua presenza e alla sua verità: ricordare la sua vita e la sua morte, comprendendone il senso. Solo quando i discepoli arrivano ad attestare che la sua morte è dedizione, riescono a comprendere Dio come colui che non si impone nella forma del dominio storico, ma che vuole essere con i discepoli, desidera che essi mettano in atto tutta la loro capacità interpretativa. Solo alla fine di questo processo diviene significativo per loro il dono della rivelazione. Ciò significa che la fede cristiana è esperienza di libertà, perché si viene a sapere che Dio richiede la mia libera attestazione, affinché il suo comunicarsi nella rivelazione abbia senso per me e mi stimoli concretamente nel modo di vivere.
Va notato che questa vicenda si sviluppa nel tempo, è storica, ed è una vicenda nella quale si comprende che tra l’attestazione della fede e la cura per la comunità cristiana non c’è automatismo. Ai discepoli occorre tempo per realizzare che la fede può e deve essere testimoniata. Il paradosso della comunità cristiana è che spesso dimentica la centralità dell’esperienza della libertà che la fede rende possibile, e la storia che essa richiede.
Un’altra caratteristica che emerge dai Vangeli (ma non solo) è la struttura affettiva del riconoscimento della fede. I discepoli hanno riconosciuto il risorto perché avevano vissuto con Lui e sentivano affetto per la sua persona. Questa base dell’affetto per l’umanità di Gesù, che è l’inizio della relazione della fede, dovrebbe farci riflettere sulla dimensione del sentire che l’esperienza della fede implica. Il sentire di Gesù è profondo affetto per le persone che incontra; quella di Gesù è una corporeità totalmente aperta, disponibile: piange, soffre, gioisce, si arrabbia…Anche il sentire dei discepoli e di coloro che incontrano Gesù: colui che è portatore di una corporeità malata sente il tocco, la carezza di Gesù; il giovane ricco sente lo sguardo di Gesù che lo fissa; il ladrone perdonato sente l’odore del sangue di Gesù, della sua morte. L’autocomunicazione di Dio avviene nell’esperienza anche del corpo, nel sentire, insieme a quella della parola, la quale pure richiede un’esperienza corporea. e cioè l’ascolto.
Nella storia della chiesa abbiamo una lunga tradizione del sentire l’affetto per il Signore: dalla mistica alla religiosità popolare. Forse occorre riprendere quella tradizione e ripensarla, in particolare per i giovani; il vangelo, infatti, consente di trovare la pienezza della propria corporeità e del proprio sentire.
Nell’esperienza evangelica si ritrova il mandato di Gesù ai discepoli: l’attestazione della fede implica il compito della testimonianza. Tale mandato si concretizza nel comandamento dell’amore reciproco. La reciprocità fraterna dovrebbe essere lo stile di vita della comunità cristiana. La riscoperta di questo stile della fraternità può sembrare oggi utopia, presi come siamo dalle discussioni sulla società multietnica e multirazziale, ma non si può cambiare il vangelo: l’amore del prossimo è la condizione della testimonianza! La comunità cristiana non è innanzitutto un gruppo di persone che si organizza, e nemmeno una sorta di club in cui uno entra se invitato, previo esame. Essa è fraternità, luogo in cui uno si prende cura dell’altro, famiglia in cui ci si perdona. Questo stile non si percepisce facilmente nelle nostre comunità, eppure è il tratto distintivo della presenza del Risorto. Caratteristica della vita della comunità cristiana deve essere la dedizione incondizionata verso ogni uomo.
Del resto, Gesù non ha predicato a uomini già cristiani: i suoi discepoli erano ebrei e pagani. La sua vita è stata per loro testimonianza eloquente di Dio perché si è dedicato senza condizioni a loro con tutto se stesso e ha fatto capire che questa dedizione è la vita stessa di Dio. La vita di Dio si respira dove ci si dispone praticamente a questa dedizione, e questo è il motivo per cui non potrà mai esserci separazione tra fede cristiana ed etica: oggi nella comunità cristiana non emerge (non dico che non ci sia) questa dimensione divina. Penso che questo sia uno dei motivi (se non il principale) per cui buona parte dei cristiani non ha la chiave di accesso per comprendere i richiami e gli interventi della chiesa istituzionale nei diversi campi della vita sociale e civile. Tutto viene trasferito sul piano politico, senza le necessarie mediazioni; oppure si intende il messaggio cristiano in modo morale-prescrittivo, senza riportarlo al fondamento cristologico, che lo riempie di sensatezza. Il significato cristiano della vita e della morte, del potere e della politica, assume piena luce solo se viene riportato alla dedizione incondizionata manifestataci dal Dio di Gesù Cristo . Non voglio cadere nella trappola mediatica che parla in modo banale o confuso dell’accoglienza del prossimo bisognoso, e si riempie la bocca di espressioni come “buonismo cristiano”; dico solo, a gran voce, che l’imperativo evangelico di amare il prossimo tuo come te stesso risuona da molti secoli prima che i migranti fossero!
Emergenze e criticità nella prospettiva di un “nuovo umanesimo”
Nello sforzo di produrre con l’aiuto della filosofia alcune linee portanti di un umanesimo che includa le emergenze di oggi intorno al progetto uomo, nell’ultima parte del mio intervento non intendo avanzare una riflessione fatta a tavolino circa quello che un filosofo può riconoscere capace di mettere l’uomo al riparo della crisi dei valori, bensì rivolgo lo sguardo all’Umanesimo, in modo che, nel tornante della mondializzazione in atto da qualche decennio, possano venire allo scoperto i tratti essenziali di una civiltà degli uomini che sia inclusiva dei valori degli umanesimi del passato.
L’umanesimo più prossimo a noi risale a Cinquecento anni fa, ed è quello dell’Umanesimo-Rinascimento, che ha fortemente sostenuto la riproposizione del modello di uomo della classicità greco-latina. Le opere dei classici, intese come opere letterarie, filosofiche, religiose, artistiche e politiche, vennero caricate dell’onere di riformulare una prospettiva di civiltà dell’uomo pienamente umana. Ed è così accaduto che in età rinascimentale si sviluppasse il primo modello di uomo che accoglieva la diversità nell’unità, e l’unità nella diversità. Colonne portanti erano le tre religioni monoteiste (Cristianesimo, Ebraismo e Islamismo), sulle quali si innestava una quarta colonna, la sapienza dei classici, in particolare dei greci e dei latini, che si era preservata grazie alla mediazione delle culture medievali, sia delle culture monastiche cristiane (dei monaci celtici), sia delle scienze arabe, raccoglitrici e trasmettitrici del patrimonio filosofico e scientifico greco-ellenistico, includendo spazio anche per la cultura degli ebrei.
Oggi l’urgenza dell’integrazione fa affiorare le diversità in maniera molto più scoperta che in età umanistico-rinascimentale: sono le diversità di culture, di lingue, di civiltà, di tradizioni, di nazioni, di paesaggi naturali, di climi. Questo ci induce a pensare che non basta una replica formale dei modelli classici, ma che occorre procedere con un nuovo modello di umanesimo, segnato da una grande integrazione su più fronti. L’universale umano infatti passa oltre la crisi, oltre l’economia e la finanza, oltre le culture e oltre le religioni. Bisogna non limitare la visione all’Occidente, e guardare al governo unitario della terra.
Dal Rinascimento a oggi sta l’incidenza dei Cinquecento anni della Modernità, nella quale si è avviata la prima globalizzazione, quando, con la scoperta del nuovo mondo, hanno avuto inizio l’età planetaria del popolamento umano della terra e l’interconnessione di tutti i continenti, ma hanno avuto luogo altresì il dominio delle culture forti su quelle deboli e, alla fine, l’occidentalizzazione del mondo attraverso le conquiste e le colonizzazioni. Il processo di globalizzazione è diventato infine realtà dopo il 1989, con la sua forma specifica, quella del liberismo economico, apportatore di un unico mercato mondiale. Da qui sono nate le grandi attese, speranze e promesse, che la crisi di questi ultimissimi anni ha mostrato essere piene di altrettanto grandi minacce per l’uomo.
Come la cultura attuale diagnostica le criticità, nello sforzo di avanzare le linee di un progetto nuovo di uomo, di valori forti per un nuovo umanesimo? Anzitutto riconoscendo i limiti della nostra conoscenza, nella quale la specializzazione disciplinare ha ampliato le aree del sapere, ma contemporaneamente ha prodotto il frazionamento e le divisioni del sapere. I saperi vanno sempre interconnessi, perché di fronte a problemi sempre più complessi non bastano esperti in una sola dimensione del sapere.
L’università medievale e umanistica, che è ancora alla base della formazione scolastica e universitaria del nostro tempo, ha avuto il merito di creare l’Europa e le sue classi dirigenti, con la faticosa conquista dei diritti umani, creando altresì i sistemi scolastici a tutela della persona e del cittadino. Ma oggi incombe la necessità di far fronte al principio complesso della diversità: occorre riaffermare la diversità nell’unità, nella prospettiva di un umanesimo integrale, in una prospettiva che può partire dalle indicazioni di Jacques Maritain nel suo “Umanesimo integrale”: Maritain auspicava l’integrarsi dei valori umanistici profani e cristiani; nella condizione storica del sec. XXI, quella dell’umanità globalizzata, i valori umanistici condivisi vanno situati in una società multietnica, multiculturale e multireligiosa, che nasce dalla convivenza pacifica e armonica di etnie, religioni e culture diverse. Per l’umanesimo integrale occorre oggi coniugare ciò che si presenta separato: coniugare il rigore dei bilanci e gli investimenti nelle conoscenze, le culture umanistiche e le culture scientifiche, la direzione dell’economia e la partecipazione delle persone che lavorano o che vogliono lavorare, la riforma della politica e la riforma ella civiltà. Il nuovo umanesimo ha bisogno dell’impegno di tutti e da subito per la riforma della vita, del pensiero, della spiritualità, dell’attenzione ai bisogni interiori e materiali del soggetto umano, di tutti i soggetti umani, a qualunque latitudine del globo.
Per concludere. Per suggerire qualche riflessione sul possibile contributo dell’umanesimo cristiano in questo processo di passaggio dall’universalismo astratto dell’antico umanesimo all’universalismo concreto, che non opponga più il singolare al generale, le diversità all’unità, mi collego con l’assunto centrale della visione cristiana dell’uomo, ossia con il tema biblico dell’uomo fatto “a immagine e somiglianza di Dio”.
L’ermeneutica più tradizionale dell’asserto biblico insiste sul fatto che, dopo la caduta, l’immagine di Dio nell’uomo è rimasta, ma come celata da una patina che la rende opaca e perciò la somiglianza non è più visibile; il compito pratico dell’azione del credente diventa pertanto quello di riattivare la somiglianza con l’esecuzione fedele della legge di Dio, e recuperare così la somiglianza dell’uomo con l’originale di cui è immagine.
Una lettura più stimolante mi sembra tuttavia rinvenibile già a partire da S. Agostino, attraversando il medioevo per giungere sino a Malebranche, a Pascal e a Goethe; tale lettura insiste su di un dato preciso, ossia che il rinvio dell’immagine al suo modello originario è ineludibile, ma in questo rinvio può accadere l’oblio, ossia l’ossimorica possibilità di dimenticare l’indimenticabile. L’immagine e la somiglianza sono radicate nella memoria dell’uomo, sono connesse con la “memoria Dei”, che non è un semplice rammemorare qualcosa di già visto, non è la reminiscenza del paradiso perduto, che in realtà è completamene perduto, e resta solo come luogo di fede; la memoria dell’uomo di oggi da sola non è sufficiente per recuperare l’immagine obliata e la somiglianza perduta.
La “memoria Dei” è in connessione con l’obbligo biblico di ascoltare (“Ascolta, Israele- Shemà Israel”), cioè ascoltare per non dimenticare, prestare ascolto a ciò che Agostino definisce “intimior intimo meo et superior summo meo” (qualcosa che è più intimo del mio intimo, più elevato della mia sommità): Dio è l’indimenticabile nell’intimo della memoria, è quel recondito che rende possibili tutte le sue operazioni; egli è presente comprendendomi (dentro il mio intimo), ma insieme eccedendomi, perché è più intimo, più elevato, ossia è oltre il mio intimo! Il radicamento dell’immagine di Dio nell’uomo è dunque una presenza che si dà solo sovrabbondando, eccedendo, estremizzando: noi oggi diremmo che la presenza di Dio nella memoria dell’uomo ha valenza escatologica.
Per chi accredita l’antropologia biblica creazionista, l’anima dell’uomo ha visto Dio, nel momento della sua creazione ha visto l’originale a cui immagine è stata fatta, ha avuto l’intelligenza di ciò, ma la caduta ha innescato l’oblio che la contrassegna attualmente. Va tenuto in grande conto un dato, ossia che l’oblio non è qualcosa di accidentale, bensì è costitutivo della memoria Dei; basti un riferimento a come Platone e Agostino prima, Freud e Bergson dopo, hanno enucleato la coappartenenza essenziale dell’oblio alla memoria: senza la perdita radicale prodotta dall’oblio (non: senza la dimenticanza, che è una banale modalità del ricordare), senza l’oblio non si costituisce memoria, non si produce alcun recupero memoriale.
La dottrina platonica della conoscenza come reminiscenza va sottratta alla lettura che la collega con la preesistenza: Platone non dice che trovare la verità sia ricordarsi, ma che “il ricercare e l’apprendere sono in generale un ricordare”; la conoscenza come reminiscenza è molto valorizzata da Leibniz e dallo stesso Hegel, il quale afferma che il ricordo dell’universale può essere Erinnerung, termine che per Hegel vale come interiorizzazione, movimento verso di sé, raccoglimento del pensiero. Il soggetto sviluppa un ricordo segnato e per così dire emergente dall’oblio, dentro di sé scopre un sapere che ha un’altra origine rispetto a quella che muove dalla conoscenza individuale delle cose.
C’è un’ulteriore spunto di riflessione che desidero brevemente proporre, e riguarda la lettura del mondo che oggi si sviluppa in filosofia in stretta connessione con la lettura proposta dalle scienze positive degli ultimi decenni: la scienza avanzata, o, come si usa dire, la scienza post-moderna, ha abolito la visione del mondo propria della modernità, ossia quella di un mondo fondamentalmente eterno, perfetto nelle sue leggi di sviluppo, di statica e di dinamica, di cui gli scienziati moderni hanno scoperto tutte le formule e che la teoria della relatività ha definitivamente stabilizzato con l’inserimento della possibilità del verificarsi di variazioni all’interno. Il mondo della scienza moderna, da Galileo, Newton e Kant, una volta superato l’eliocentrismo, non è mai stato sottoposto a dubbi circa la sua eternalità (concetto diverso da quello di eternità: l’eternalità si posiziona su una indefinita successione temporale), voglio dire che non si è mai posta (l’unica eccezione è rappresentata dalla lettura creazionista) la domanda sull’origine o cominciamento assoluto degli elementi costitutivi del cosmo, né ha pensato alla fine del tutto, accettando di fatto l’ottica dell’aristotelismo per cui nulla si crea e nulla si distrugge. Solo con la scienza sviluppatasi lungo il Novecento si è compreso che il cosmo è sottoposto a un processo di evoluzione, non solo delle ragioni seminali o delle trasformazioni degli elementi, ma anche dell’intero cosmo come procedente da un inizio e come segnato da una fine. Dal mondo fisso e immutabile nei suoi fondamentali (lettura che va da Aristotele sino a Kant), siamo passati al mondo come segnato dalla modalità di vita propria di ogni evoluzione vitale: il mondo ha una storia viva, di grande espansione, per la quale ha avuto una nascita e avrà una fine. Il mondo non è più un termine corrispondente al concetto di natura proprio della scienza moderna, quello di una natura dotata di leggi immutabili e ben conosciute dai matematici e dai fisici, concetto che è stato condiviso anche dalla filosofia dei secoli passati; il mondo va visto come un grande organismo realmente vivente, “non una pozza d’acqua stagnante, ma un fiume che agita la sua piena dalla sorgente alla foce. Un mondo, insomma, capace di relazione e non semplicemente auto-referenziale”.
A mio parere questa visione fa scattare la necessità di uno sguardo modificato da parte dell’uomo, perché decade il primato della specie e s’impone il primato del vivente individuale; il singolo uomo non è l’epifenomeno di un tracciato che consente alla specie di restare nella sua storia, ma la storia della specie risulta dalla storia degli individui, e dalla loro permanente relazione con il mondo vivente nella sua evoluzione. Le domande esistenziali non sono più un’opzione del romantico o del credente, ma è il cosmo intero che nell’uomo assume consapevolezza della propria contingenza, del suo enigmatico processo di nascita e del suo evolversi continuamente e camminare in direzione della fine. Ecco come riaffiora insopprimibile la domanda sulla trascendenza: l’interrogativo esistenziale passa dall’antropologia alla cosmologia: una lettura meramente positivistica e scientificaa del mondo, che escluda la trascendenza, consegna l’uomo a un trattamento disumano, ossia lo priva del suo essere in relazione fondante con la vita del mondo stesso. In altre parole la domanda tormentone della filosofia di Heidegger: “Perché l’ente e non piuttosto il niente?”, non riguarda solo il singolo individuo di una specie, ma riguarda il cosmo tutto: perché il cosmo e non piuttosto il nulla? Può il nulla spiegare la nascita del mondo? L’unico nulla che può essere evocato nel tentativo di rispondere a questa domanda che sia speculativamente convincente è il nulla richiesto dall’ermeneutica dell’espressione “creazione dal nulla”, cioè a dire: il mondo deriva dal “nulla di sé” (ex nihilo sui), ossia non preesisteva nulla al mondo, ma non è derivato dal nulla in senso ontologico, perché il nulla assoluto per definizione non è, né può essere.
Ripeto la domanda: da quale inizio deriva la vita del cosmo, stante che i dati certi delle scienze ci dicono che il mondo ha avuto una nascita? Siamo in questo modo spinti a indirizzare lo sguardo, secondando un’altra e più nuova angolatura, verso la posizione del creazionismo dell’umanesimo cristiano: l’uomo non viene dal nulla ossia dal niente, e non va al nulla ossia al niente. Sostenere ciò comporterebbe pensare che l’uomo è un dio con la capacità di iniziare da sé, capace di farsi da sé e di decidere da sé la propria vicenda temporale, ma la narrazione dell’evoluzione lo smentirebbe, lo svelerebbe come un dio-dimidiato, perché l’uomo è impossibilitato a sottrarsi alla destinazione cosmica che lo attrae, lo vivifica ed insieme lo consuma. Vedo cioè riaffiorare lo stigma biblico dell’essere l’uomo a immagine di Dio, e lo vedo contratto dall’intero cosmo, dal mondo intero, dalla natura tutta che è in stretta connessione con l’immagine di Dio. Lo ricorda il Salmo: “I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento diffonde la notizia delle opere delle sue mani”.
Di questa imago Dei, su cui è caduto l’oblio, l’uomo è il corifeo apicale, ne è il vessillifero, perché gli è stata aggiunta la “somiglianza”, dal momento che proprio l’uomo è capace, direi che è vincolato, a leggere, con la potenza della sua memoria e con l’acume conoscitivo della propria intelligenza, la vita, i processi formativi e quelli evolutivi della vita che riempie il cosmo.