Dalla paura, alla solitudine, alla gioia «Affronterò la vita insieme a mio figlio»
Il bambino lo chiameremo Davide. Lei, la giovane madre che lo ha voluto, Anna. Nomi ovviamente di fantasia. Lui è uno dei trentotto bimbi che nei dieci anni di attività del Centro di aiuto alla vita di Ragusa sono stati strappati all’aborto. Lei, una delle 39 mamme che, coinvolte in una rete di solidarietà che spesso stende le sue maglie ben oltre il limite del territorio ibleo, hanno optato infine per la vita.
Al termine della Marcia per la vita che, sabato 4 febbraio, sviluppandosi da piazza Martiri di Nassiriya, dall’ospedale Civile di Ragusa ha raggiunto la cattedrale di San Giovanni, Anna ci mette la sua faccia e racconta la sua storia. Un volto sereno e parole semplici che hanno tutto il sapore della gratitudine.
Il suo racconto somiglia a quello di tante altre donne che davanti ad un test di gravidanza scoprono che nel loro grembo si sta facendo spazio una nuova creatura. «Io, però, ero spaventata – rammenta la giovane che adesso ha 21anni – e subito alla paura si è aggiunta la solitudine perché di un figlio, il mio compagno non voleva proprio saperne».
Paura e solitudine; sentimenti che, insieme al timore di confessare la gravidanza ai familiari, i quali «non stimavano il mio ragazzo», diviene un mare nero in cui si può annegare. «La strada dell’aborto sembrava quella più semplice» –commenta – promette di risolvere tutto senza disturbare nessuno. Così, cerca un consultorio che formalizzi la sua decisione, ma la trafila è più lunga del previsto. Sono proprio le lungaggini burocratiche, però, a favorire casualmente l’incontro con i volontari del Centro di aiuto alla vita.
«Non avevo bisogno – spiega – di grandi cose. Ho trovato, però, un sostegno morale, qualcuno con cui parlare e che mi stava ad ascoltare». Per altre donne, spesso, la questione riguarda le ristrettezze economiche che un modesto sostegno mensile da parte del Centro di aiuto alla vita, estensibile ai primi mesi dopo la nascita, basta ad aiutare a superare.
Un approccio, quello dei consultori cattolici, forse mutato nel contesto di questo “cambiamento d’epoca”, come lo definisce papa Francesco: meno richiami etici e più disponibilità ad una compagnia discreta e concreta che arriva sino all’accoglienza del bimbo che nasce affetto da gravi patologie e che l’altro non riesce ad accettare. Sostenuta dalla disponibilità dei volontari, Anna riprende il rapporto col compagno che nel frattempo l’aveva abbandonata. E così, sei mesi fa è nato Davide.
Non è tuttavia una storia da happy end per cui “vissero tutti felici e contenti”, quella di Davide e Anna. Il papà, dopo qualche mese, li ha lasciati di nuovo, ma negli occhi della donna non c’è l’ombra dell’astio. «Sono contenta della mia decisione di farlo nascere – afferma incoraggiando altre donne a non arrendersi –. La vita la affronteremo insieme».
Intanto la presenza di Davide è già decisiva mentre dorme teneramente abbandonato tra le braccia della mamma durante l’omelia con cui il vicario generale della Diocesi, don Roberto Asta, chiude il gesto svoltosi nel solco di Madre Teresa di Calcutta.
In qualche modo, infatti, l’esistenza di questo bimbo rende credibili i proclami di accoglienza della vita che ha il volto dei migranti, dà carne ai buoni propositi di non lasciare che si spenga nell’insignificanza e nell’anonimato delle corsie d’ospedale, nella solitudine delle case di riposo o dietro le sbarre di una cella, l’esistenza degli anziani, dei malati e dei carcerati quando per la società rappresentano solo un peso economico del quale disfarsi.
Lui, Davide, c’è. È stato voluto da tanti. Chissà chi diventerà?