Società

Pubblicato il 30 Ottobre 2017 | di Agenzia Sir

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Una volta c’era la Festa dei Morti ora c’è Halloween

Non sono più giovane ma ricordo ancora perfettamente che aspettavo la mattina del 2 novembre per scoprire quali regali mi avevano portato durante la notte del 1° novembre i miei cari defunti. I miei genitori ed ancor più i miei nonni mi raccontavano che anticamente in questo giorno di festa, dedicato tradizionalmente alla commemorazione dei propri cari, noi bambini dovevamo essere i più felici di tutti perché nell’occasione,.. se “avevamo fatto i bravi”, ricevevamo in dono dei cestini colmi di doni ma soprattutto di golosità come l’ossa dei muorti (piccoli biscottini molto duri a base di farina, zucchero, chiodi di garofano, acqua e cannella) o i totò bianchi o neri (biscotti spolverizzati di cacao o zucchero o anche glassa al limone) e più di ogni cosa la tradizionale e coloratissima frutta martorana dalle più svariate forme).

Tempi lontani completamente sconosciuti ai piccoli di questi nostri strani tempi moderni.
Oggi invece c’è Halloween una pseudo festività di origine celtica celebrata la notte tra il 31 ottobre e il 1º novembre, che nel XX secolo ha assunto negli Stati Uniti le forme accentuatamente macabre e soprattutto commerciali con cui è divenuta nota. L’usanza si è poi diffusa anche in altri Paesi del mondo (purtroppo anche nel nostro Bel Paese) e le sue manifestazioni sono molto varie: si passa dalle sfilate in costume ai giochi dei bambini, che girano di casa in casa recitando la formula ricattatoria del trick-or-treat (dolcetto o scherzetto).
Caratteristica della festa è la simbologia legata alla morte e all’occulto, di cui è tipico il simbolo della zucca con intagliata una faccia sorridente (il più delle volte spaventosa) e illuminata da una candela o una lampadina piazzata all’interno, derivato dal personaggio di Jack-o’-lantern. Per molte confessioni cristiane le origini di Halloween sono strettamente connesse (a buon diritto ndr) alla magia, alla stregoneria, al satanismo e, quindi, considerano la festa come una via di influsso dell’occulto nella vita delle persone. L’enfasi di Halloween è sulla paura, sulla morte, sugli spiriti, sulla stregoneria, sulla violenza, sui demoni e sul male: i bambini ne sarebbero negativamente influenzati. In risposta alla crescente popolarità della festa, alcuni fondamentalisti e alcune chiese evangeliche conservatrici sono ricorsi a opuscoli e brevi fumetti per trasformare Halloween in un’opportunità di evangelizzazione.

In generale però il mondo cristiano è contrario alla festa di Halloween, ritenendo che il paganesimo, l’occulto, le pratiche e i fenomeni culturali connessi siano incompatibili con la fede cristiana. Ad oggi la più grande tradizione di Halloween sul suolo americano è quella del famoso “dolcetto o scherzetto?” realizzata da bambini e ragazzini la notte del 31 ottobre. Durante questa sera i bambini, travestiti da zombie, fantasmi o altri esseri paurosi, suonano i campanelli delle case del loro circondario, chiedendo in regalo ai padroni di casa caramelle e dolcetti. Anche gli adulti attendono la notte di Halloween per partecipare a feste mascherate, organizzate solitamente in casa di amici o all’interno di locali pubblici. Sin dagli albori, la notte di Halloween negli Stati Uniti è tuttavia sempre stata caratterizzata da alcuni episodi di vandalismo ai danni delle proprietà altrui, comprensivi di atrocità sugli animali. Tra le prime campagne per sensibilizzare l’opinione pubblica su un corretto svolgimento della festività, si ricorda quella condotta dai Boy Scouts nel 1912. Padre Gabriele Amorth, esorcista della diocesi cattolica di Roma, affermò che “festeggiare la festa di Halloween è rendere un osanna al diavolo. Il quale, se adorato, anche soltanto per una notte, pensa di vantare dei diritti sulla persona”.
Quanto sane ed educative erano le nostre tradizioni legate a questo momento della vita di ogni anno: si potrà mai farle ritornare ?

“Il giorno dei Morti” raccontato da Andrea Camilleri.

Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio. Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre. I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo. Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire. (da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri)

 


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