Pubblicato il 23 Gennaio 2018 | di Agenzia Sir
0Ibla e la nuova Ragusa Una storia da rileggere
L’11 gennaio 1693 è la data del “tirrimuotu ranni” che cancellò la città e stravolse la topografia del Val di Noto: è domenica, la terra trema, si innalza, sprofonda, si spacca, è la catastrofe o meglio “il flagello”: una data storica per il Val di Noto e per la Contea di Modica, una data che segna per i ragusani la nascita della loro “nuova Ragusa”, ed il ricordo di quei momenti a distanza di secoli si tramanda ancora da padre in figlio.
All’epoca il fulcro della comunità ragusana è costituito dall’odierna Ibla divisa in due fazioni, i Sangiorgiari abitanti il quartiere della Piazza ed i Sangiovannari abitanti il quartiere degli Archi, due parrocchie eternamente in lotta per il predominio sull’intera comunità, rivalità alimentata soprattutto da motivi religiosi per imporre la supremazia dei rispettivi santi protettori, San Giorgio e San Giovanni.
Notte tra il 9 ed il 10 gennaio, una scossa di terremoto di notevole entità semina il panico tra le genti che trascorrono la notte successiva all’addiaccio nelle campagne circostanti. Ma non accade nulla, alle prime luci dell’alba c’è il rientro in città e la quasi totalità delle persone si riversa nelle chiese per ringraziare l’Onnipotente per lo scampato pericolo. Ma poco dopo mezzogiorno improvviso, inatteso e terrificante ecco “il flagello”: s’ode un tremendo boato, la terra comincia a vacillare, poi trema sempre più paurosamente, le vie vengono tranciate da profondi baratri. Le mura delle case ondeggiano e crollano al suolo come castelli di sabbia seppellendo uomini e cose, Ragusa antica e medioevale si trasforma in pochi attimi in un ammasso informe di pietre e polvere: le proporzioni dell’immane cataclisma i ragusani le conosceranno molto tempo dopo.
Un cronista d’oggi sorvolando i siti devastati avrebbe registrato che ad Ibla non esistevano più il Castello, la chiesa di San Giorgio (oggi è rimasto solo un portale), la chiesa di San Giovanni, quasi nulla rimaneva delle altre chiese (se ne contavano circa 35 ), quasi nulla rimaneva dei palazzi e delle case. Ovunque dolore, morte, distruzione, e tra tanta apocalittica visione d’insieme la natura umana che si ripete: sciacalli e predatori che come immonde iene razzolano tra le macerie ed i cadaveri in cerca di quel che le case custodivano, in cerca del “tesoro, ‘a truvatura”. Quanti miracolosamente sono scampati alle macerie vivranno per moltissimo tempo all’aria aperta, senza riparo, senza coperte, al freddo intenso (si era in pieno gennaio), quasi invidiando i loco compaesani travolti dalla furia del sisma e “coperti” da una spessa coltre di pietre e fango: nella sola Ragusa su circa 10.000 abitanti oltre la metà non rivedrà l’alba del nuovo giorno.
Parecchi mesi dopo il cataclisma si pone per i sopravvissuti il dilemma della ricostruzione, ma dove? Sul vecchio sito o altrove? Riaffiorano i vecchi rancori mai sopiti, gli animi si scaldano, l’occasione funesta del “flagello” va colta al volo per dividere le due fazioni: i Sangiorgiari e la casta nobile decidono di ricostruire sul vecchio sito (l’attuale Ibla), i Sangiovannari edificheranno la loro nuova città più a monte in contrada Patro. Saranno edificate così due nuove monumentali basiliche, ad Ibla la svettante San Giorgio, nella Ragusa nuova la mirabile San Giovanni Battista: ma “gli scontri” tra i due “blocchi” continueranno ancora negli anni a venire, si va così dalla divisione in due comuni del 1695 alla riunificazione del 1926 con la creazione della provincia di Ragusa.