Politica

Pubblicato il 7 Gennaio 2019 | di Vito Piruzza

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Come la crisi economica cambia la democrazia

Abbiamo assistito all’interessante convegno organizzato dall’Associazione Itinerari e dal Rotary Club di Ragusa in cui il Prof. Francesco Raniolo Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università della Calabria, il prof. Massimiliano Panerari e la prof.ssa Daniela Piana della LUISS introdotti dal prof. Santo Burgio, direttore del corso di laurea in lingue di Ragusa hanno dibattuto del recente testo scritto a quattro mani di Leonardo Morlino e di Francesco Raniolo: Come la crisi economica cambia la democrazia”, il Mulino, 2018. Ne parliamo con l’autore.

 

Prof. Raniolo, qual è il tema centrale del libro?

 

Permettimi anzitutto di precisare che il nostro libro è frutto di un ampio lavoro di ricerca che risale già al 2010 e che ha visto diverse pubblicazioni. In particolare, il libro che abbiamo presentato nella sede del Rotary di Ragusa era stato preceduto nel 2017 da una versione inglese uscita per Palgrave dal titolo The impact of the economic crisis on South European democracies, che ha avuto un certo riscontro internazionale e che, per es., in Portogallo ha aperto un vivace dibattito sui cambiamenti della democrazia lusitana. Quanto al tema il libro riguarda l’analisi di come quella che chiamiamo “la grande recessione” del 2008 ha influenzato e cambiato la qualità delle democrazie partendo dalla comparazione dei quattro casi di Italia, Grecia, Spagna e Portogallo. I paesi che più di altri in Europa sono stati colpiti dalla crisi per intensità e durata e, anche, per effetti politici. Il formato e la dinamica dei sistemi di partito di questi paesi sono stati radicalmente mutati con esiti aperti e soprattutto ambigui sul futuro stesso delle democrazie rappresentative.

 

I meccanismi che voi avete osservato hanno tratti uniformi in tutte i Paesi coinvolti dalla crisi?

Il nostro punto di partenza è comune a quella letteratura socio-politologica, anche ma non solo di derivazione neomarxista, che sostiene la rilevanza delle origini esogene del cambiamento politico – appunto, tra questi, la crisi economica se ha certe caratteristiche  che noi descriviamo nel libro –, tuttavia ce ne distacchiamo per un aspetto principale. Anzitutto, perché le evidenze empiriche non ci sembrano suffragare l’ipotesi che le crisi producono radicali discontinuità (la “distruzione creatrice” di cui parla per es. il grande economista austriaco Schumpeter), piuttosto sono presenti fattori inerziali. Il cuore del libro è la tesi che le crisi economiche agiscono come “meccanismi catalizzatori”, cioè come processi che accelerano e amplificano processi e tendenze già presenti o latenti nei diversi sistemi politici. Per capire gli effetti della crisi dobbiamo, così, guardare alle “condizioni di contesto” (per es. alla cultura politica, all’efficacia del tessuto istituzionale, ecc..), da qui anche gli esiti differenziati nei diversi paesi. Abbiamo rilevato nei nostri quattro paesi tre modelli di scelta elettorale conseguenti alla crisi: in Portogallo abbiamo uni scenario di “alienazione e continuità”, trionfa l’astensionismo che però avvantaggia i partiti tradizionali sia di destra che di sinistra; in Spagna e Grecia, abbiamo un modello opposto di “mobilitazione sociale e della difficile istituzionalizzazione”, scoppio della protesta sociale che viene intercettata da movimenti e formazioni regionali che si trasformano presto in partiti (Podemos, Ciudadanos), per la Spagna, o confluiscono  in partiti radicali o estremisti (Syriza e Alba Dorata), in Grecia (e, dopo le elezioni in Andalusia del mese scorso, anche la formazione di destra, Vox). Resta l’Italia dove si afferma un modello di “mobilitazione politico-partitica” del risentimento grazie al successo immediato del M5S (già nel 2012-13) e della Lega di Salvini (nel 2018) e alla penalizzazione delle tradizionali opzioni di governo.

 

La nascita di nuove formazioni politiche è il frutto della crisi dei partiti tradizionali: si tratta a suo avviso di un processo in fieri o è già consolidato?

Nel libro al riguardo mettiamo in risalto due aspetti. In primo luogo, la crisi dei partiti e delle istituzioni della rappresentanza (parlamento e soprattutto classe politica, percepita come “la casta”) è un fenomeno oramai di lunga durata nelle democrazie occidentali. In alcuni casi, proprio nel Sud Europa ma non solo (si veda la stessa Francia) tale processo è stato esasperato dai casi di corruzione sistemica e dalla insofferenza delle opinioni pubbliche (si veda, per es., la caduta del governo Rajoy del 2017 in Spagna, o l’impatto della c.d. tangentopoli della Regione Lazio sulle elezioni del 2013 in Italia). Talvolta si è parlato, Pierre Rosanvallon, finanche di “entropia della rappresentanza” politica, fenomeno però che riguarda anche i grandi sindacati e  gruppi di interesse. La crisi economica quindi ha accelerato il declino dei corpi intermedi tradizionali. Per altro, l’indebolimento dei partiti di massa e dei grandi sindacati ci trova oggi meno attrezzati per gestire la crisi rispetto a quanto non sia accaduto negli anni ’30 del XX secolo, nel secondo dopoguerra o ancora negli anni ’70. D’altra parte, laddove le condizioni lo hanno permesso si sono affermati nuovi “imprenditori politici” innovativi rispetto al passato, estremisti, per riuscire a canalizzare la protesta, radicali per stile politico aggressivo e per l’uso dei nuovi media e dei social network. Quindi l’effetto catalizzatore è stato confermato con un paradosso: la crisi dei partiti tradizionali ha favorito in tutti i ns. paesi, con l’eccezione del Portogallo, il successo di quelli che chiamiamo i “nuovi partiti di protesta”.

 

Il prof. Panerari nel corso del convegno ha parlato di una deriva della fiducia che ha come approdo la radicalizzazione: è un processo disinnescabile?

 

La chiave interpretativa che proponiamo nel libro è che la grande recessione ha lasciato delle “democrazie radicalizzate” cioè dove delle tensioni, per così dire strutturali dei regimi democratici stanno producendo effetti squilibranti e destabilizzanti: conflitti istituzionali tra poteri dello stato, spinte centrifughe delle regioni più ricche, leaderizzazione dei partiti, delegittimazione delle istituzioni rappresentative, comunicazione politica aggressiva, estremismo della partecipazione via social, per citare solo alcuni fenomeni. La forza della democrazia nel lungo periodo (non dimentichiamo però che le democrazia mature hanno un paio di secoli di vita) è stata la sua adattabilità e apertura all’ambiente. La democrazia ha funzionato fino ad oggi incorporando la protesta – quindi riducendola e moderandola – attraverso riforme e assestamenti istituzionali. Si pensi all’ondata di protesta del ’68 che cambia la fisionomia delle democrazie occidentali. Quindi nel dna delle istituzioni democratiche c’è, in un certo senso, la medicina contro la radicalizzazione. Ma occorre anche contare e puntare sulla responsabilità di noi cittadini ed elettori e delle élite politiche. Questo oggi mi sembra un versante deficitario.

 

Nell’ambito della relazione tra economia e politica, qual è la specificità del vostro lavoro?

 

Un tema sotteso a tutta la nostra ricerca è proprio quello del rapporto tra capitalismo e democrazia, tra potere economico e potere politico. Per la letteratura neomarxista, pur nella autonomia più o meno relativa, le forme della politica sono, comunque, determinate dalla logica di funzionamento della struttura economica (capitalismo, economia-mondo, finanzicapitalismo, ecc.). C’è del vero in questa analisi, tant’è che oggi il tema della “economizzazione della politica”, per citare Gianfranco Poggi, è considerato quasi un luogo comune. Tuttavia, il potere politico non è solo determinato, ma più spesso di quanto si creda è anche determinante o, comunque, condizionante. Per es., noi nel libro affrontiamo anche il tema del ruolo dell’Unione Europea, e degli effetti pro-ciclici (quindi negativi) che le politiche di austerità hanno indotto. Ma ciò è riduttiva attribuirlo al definitivo trionfo del mercato globalizzato. Non che queste forze non contino, tutt’altro, ma dietro quelle politiche risaltano gli interessi nazionali (a partire di quelli della Germania e della Francia), divisioni interne all’Europa (tra paesi dell’area Euro e non-Euro, tra anelli deboli e forti della stessa area euro, tra paesi dell’Europa dell’Est e dell’Ovest) e tra logiche istituzionali distinte (sovranazionali, che premono sulla Commissione, e intergovernative, che si scaricano sul Consiglio Europeo). Ancora, fanno capolino gli interessi di nuove élite politiche nazionaliste o sovraniste che intraprendono strategie aggressive ed escludenti per conquistare e consolidare il potere (si pensi all’Ungheria o alla Polonia).

Ad ogni modo la tensione tra economia e politica traspare nella recessione della giustizia sociale e nella crescita della diseguaglianza che è il portato di ogni crisi economica, soprattutto di quella attuale, che vede la ritirata dello Stato sociale. La principale invenzione occidentale per correggere i fallimenti del mercato. Il libro termina con una nuova domanda di ricerca che ci sta impegnando al momento: come l’equilibro tra libertà ed eguaglianza sta mutando e come far convivere democrazie sostenibili (economicamente) che non siano però democrazie della ineguaglianza. Ma questa è un’altra ricerca e un altro libro.

 

 


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