Pubblicato il 23 Febbraio 2019 | di Redazione
0Derrida e la “Tentazione di Siracusa”
Tentazione di Siracusa è il titolo della Lectio tenuta a Siracusa nel Gennaio del 2001 dal filosofo Jacques Derrida, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria. Questa Lectio è diventata un libro pubblicato da Mimesis. Libro a cura di Caterina Resta e con le preziose postfazioni di Elio Cappuccio e Roberto Fai.
Nella Lectio Derrida, a partire da Platone, si interroga sul nesso tra potere e filosofia. Una tentazione che ha colto spesso la filosofia e i filosofi (ad esempio si pensi ad Heidegger) e che ancora oggi ci porta ad interrogarci sul nesso tra giustizia e politica. Derrida ammette di essere innocente, cioè di non cercare nessuna forma di potere filosofico-politico, ma si interroga sull’attualità auspicando una nuova era della cittadinanza politica. Una “democrazia a venire” che deve far appello a nuove leggi d’ospitalità internazionale al di là dello Stato-nazione. Lo “straniero” così diventa “amico” in un contesto globale in cui non è più possibile chiudersi nel proprio ego (filosofico e politico). Quella di Derrida sicuramente non è una tentazione, ma può suonare benissimo come un invito, forse anche come una provocazione. Ed è proprio ascoltando tale invito che Elio Cappuccio e Roberto Fai provano ad interrogarsi e a far luce su questa complessa questione.
Quella di Elio Cappuccio è una analisi sul pericolo della filosofia platonica ed è un invito a ripensare efficacemente il punto di vista cosmopolitico di Kant. Di fronte alla pretesa delle ideologie totalitarie – vere e proprie teologie secolarizzate che fallirono drammaticamente nel loro impossibile intento di portare il bene assoluto sulla terra – c’è il bisogno dell’idea di un diritto cosmopolitico, di una utopia possibile che sia il completamento del codice non scritto sia del diritto dello Stato che del diritto delle genti, per giungere ad un diritto pubblico degli uomini in generale e per il raggiungimento della pace perpetua. Ma la “democrazia a venire” che vuole realizzare il principio di fraternità pone sempre in atto, in Derrida, il problema fra diritto e giustizia. Cappuccio evidenzia come per Derrida ci sia sempre un eccesso di diritto rispetto alla giustizia. Quindi tale confronto necessario ci riporta sempre alle ragioni che condussero Platone a Siracusa. E anche se nessun diritto può essere totalmente adeguato alla giustizia, è proprio per questo che esiste una storia del diritto che è sempre in una infinita evoluzione in vista della pace tra gli uomini.
Più raffinata è la postfazione di Roberto Fai, che si interroga sulla “fraterna inimicizia” tra filosofia-politica (tra filosofo e sovrano) a partire da un chiaro quadro della situazione politica greca tra il VII e il IV secolo. La convinzione di Platone sarebbe quella di vincere la tensione in una fusione tra forza e saggezza, come se bene e potere potessero coincidere. Ma con realismo questo è impossibile, perché il linguaggio filosofico non può trasformarsi efficacemente in progetto politico. La tecnica politica platonica vorrebbe trovare una giusta misura alla molteplicità confusa della polis, perché presuppone la conoscenza del bene e sarebbe scienza dell’esercizio del potere sugli uomini. Ma la politica è per sua essenza “guerra” (polemos) e la pretesa filosofica di governare tutto con giustizia potrebbe portare al peggiore dei mali, alla “guerra interna” (stasis). In questa dicotomia tra filosofia e potere, democrazia e demagogia abitano la stessa “soglia”. Tuttavia il tentativo di armonizzare il tutto non è solo una tentazione, ma sarebbe pure una necessità in tempi in cui il potere ha mostrato il suo volto demoniaco. Ma tra l’ideale e il reale si apre un abisso e ogni tentativo è destinato al fallimento. Fallimento necessario e inevitabile per essere ripensato, ma non ripetuto impunemente, alla luce dei fatti orribili che avvengono sotto il cielo. Per questo motivo Fai cita Gilles Deleuze: “Platone non è oltrepassabile e non è di alcun interesse ricominciare quello che lui ha fatto per sempre. Abbiamo solo un’alternativa: o la storia della filosofia oppure degli innesti su Platone per problemi che non sono più platonici”. La postfazione si conclude con una nota di realismo e di umanissimo dubbio: “Oggi come allora, proviamo a corrispondere all’eredità di quel dono (quello platonico), nell’estrema contingenza di un’età epimeteica, esposti drammaticamente nudi, all’insecuritas dell’epoca, oscillando tra l’impossibilità di una parola anticipatrice e progettuale – prometeica – e l’evaporazione di un agire politico connotato di senso, o di una politiké techne che possa esserci d’aiuto”.
In sintesi: la “tentazione di Siracusa” ci interroga, ci tenta, ci provoca. Ma i filosofi, pur potendo rinunciare al potere, non possono mai rinunciare al pensiero e al pensare.