Politica

Pubblicato il 12 Aprile 2019 | di Vito Piruzza

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Autonomie regionali e unità nazionale

La richiesta di tre tra le maggiori Regioni italiane (Lombardia Veneto ed Emilia Romagna) di attivare il processo di incremento delle materie di competenza sta alimentando un dibattito serrato che però è limitato a una ristretta cerchia di addetti ai lavori; il chiasso intorno ai provvedimenti del governo (quota 100, reddito di cittadinanza) e le spaccature nella maggioranza su TAV e legittima difesa hanno distolto l’attenzione da un argomento che è chiamato a pesare sul futuro del nostro Paese in modo intenso e sul quale è invece necessario puntare l’attenzione.

Di cosa parliamo? La riforma costituzionale del 2001 prevede che le regioni possano richiedere un incremento di potestà legislativa su ben 23 materie che sono di competenza statale o concorrente e indica il percorso per ottenere questi maggiori poteri. Il percorso prevede una prima fase di negoziazione con il governo e poi il voto del Parlamento sull’accordo raggiunto e finora le richieste su singole materie da parte di alcune regioni si erano stoppate proprio nella fase iniziale per la scarsa disponibilità dei governi ad accondiscendere a queste richieste. Nel 2014 addirittura si era cercato di riformare la materia con una nuova riforma costituzionale che di fatto riduceva se non eliminava le criticità derivanti da questa normativa, ma come sappiamo il voto sulla riforma costituzionale fortemente influenzato da fattori emotivi e sicuramente estranei al quesito referendario ha lasciato invariato il titolo quinto della Costituzione. Dopo la mancata riforma della Costituzione quindi le istanze di attivazione del processo di incremento delle autonomie regionali hanno ripreso quota e stavolta per spingerle con una maggiore autorevolezza politica Lombardia e Veneto hanno fatto precedere il processo da un referendum consultivo con esito ovviamente plebiscitario (anche se con percentuali di partecipazione molto basse).

I problemi relativi a questa problematica sono diversi; da una parte la possibilità di divergenze nella gestione delle materie affidate alle regioni: è pensabile per esempio che in una nazione vi siano diversi sistemi scolastici, o sistemi sanitari o politiche del lavoro? Ma in tutta evidenza la corsa delle più grandi regioni all’incremento delle autonomie ha come motivazione quella di ottenere assieme al trasferimento delle competenze anche il trasferimento delle risorse finanziarie per gestire i servizi in autonomia e questo costituisce il punto con maggiore criticità perché nelle intese già sottoscritte dall’ex sottosegretario Bressa la quantificazione dei trasferimenti verrà stabilita in relazione “al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale” e potrà essere modificato solo con l’assenso della regione è facile intuire che se questo processo si sviluppa nei territori che contribuiscono per il 40% al P.I.L. nazionale il rischio di forte contraccolpo per la spesa pubblica statale con grave pregiudizio della potenzialità redistributiva delle risorse da parte dello Stato, con un potenziale incremento delle disparità tra zone economicamente forti del Paese e zone socialmente più fragili.

Il processo non è ancora completato ed ancora si dibatte sui reali poteri del Parlamento, se avrà la possibilità di modificare l’intesa raggiunta tra Governo e Regione o potrà solo accoglierla o bocciarla in blocco, come per la verità sembrerebbe dall’analisi del teso di legge, e aspettiamo con ansia gli sviluppi, ma stupisce la rassegnazione con cui l’opinione pubblica meridionale subisce questi processi. Dopo una consultazione elettorale in cui, soprattutto nel mezzogiorno, con tutta evidenza si è voluto dare un segnale forte di disagio e di protesta verso l’aumento delle disparità economiche, in cui l’istanza di maggiore giustizia sociale sembrava fortissima, possibile che il processo di maggiore regionalizzazione che rischia di aumentare le differenze sociali ed economiche non alimenti un dibattito diffuso?

 

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