Società

Pubblicato il 21 Maggio 2019 | di Saro Distefano

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Cosa resta dei sentimenti della fede nella religiosità popolare di oggi?

Il tragico ritmo dei tamburi di Trapani rendono il Venerdì Santo in quella città fenicia un momento indimenticabile per chi lo abbia vissuto. Un’esperienza che, dalle parti iblee, è paragonabile a tante, tantissime occasioni che elencare sarebbe difficile. Se la Pasqua comisana è tripudio di colori e suoni, è il nero che domina la processione di Ibla, immersa in un silenzio che non può non coinvolgere, nemmeno i più chiassosi e malvestiti turisti americani.

Il fatto è che le manifestazioni di devozione cristiana, a Pasqua e non solo, in forma di “messa in scena” sono importanti, per tutta una serie di motivi. Perché – a parte esasperazioni anche di ordine commerciale degli ultimi tempi – chi si impegna per organizzare un appuntamento ritenuto importante nell’anno liturgico, lo fa con passione e fede. Non solo. I parrocchiani che volontariamente spendono ore e ore in riunioni e prove, assumendosi responsabilità e sovente anche mettendo mano al portafogli, lo fanno sapendo che si tratta di fede, non di do ut des.

Quanto è possibile vedere nelle città e nei paesi, soprattutto (forse solo) nel Meridione d’Italia, è oltre tutto oggetto di ricerche etnoantropologiche serie. Dato per pacifico che la gran parte delle nostre feste religiose sono “adattamenti” cristiani di festività anche pagane e antiche quanto l’uomo, è assai interessante approfondire gli aspetti storici, le eredità, i collegamenti con altre parti della geografia cristiana. Negli Iblei, come nel resto dell’Isola, sono svariate le evidenti somiglianze con omologhe feste spagnole, per esempio.

E se tutto questo non fosse sufficiente per rendere le feste religiose tutte, e quelle della Settimana Santa in particolare, un enorme patrimonio culturale della nostra terra (patrimonio da difendere), si potrebbe aggiungere anche solo l’argomento ritenuto secondario: è la tradizione.

Proprio così: le feste religiose sono tradizionali, che non corrisponde immediatamente col concetto di passato, obsoleto. E pazienza se in alcune di queste feste, quelle di maggiore pathos e con oggettive esagerazioni sceniche, si rischia di andare oltre, oltre le sacre scritture e in rari casi anche oltre il buon senso.

È evidente che se una tradizione è tale, lo è perché nei secoli si è consolidata, si è arricchita. Vale sempre, vale anche per le tradizioni culturali, quelle sportive, quelle artistiche, quelle del lavoro. Non possono fare eccezione le tradizioni religiose che, anzi, affondano in una storia che coinvolge l’intero Mediterraneo, nel quale noi siciliani siamo al centro.

Al netto delle inevitabili derive, pur comprendendo che i selfie sono parte della vita di molti di noi che viviamo adesso il mondo, il passaggio di una statua che rappresenta una parrocchia (e un tempo, nemmeno molto lontano, anche una precisa corporazione lavorativa) rimane momento di riflessione, di preghiera, di ricerca spirituale e di connessione con il mistero della fede.

Ritenere queste consolidate manifestazioni popolari retaggio inutile di un obsoleto passato fideistico, è non solo poco elegante, ma financo ingiustificato sul piano storico.

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Autore

Nato a Ragusa nel 1964 è giornalista pubblicista dal 1990. Collabora con diverse testate giornalistiche, della carta stampata quotidiana e periodica, online e televisive, occupandosi principalmente di cultura e costume. Laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, tiene numerose conferenze intorno al territorio ibleo.



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