Politica

Pubblicato il 17 Ottobre 2019 | di Agenzia Sir

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Politica e democrazia non sono un reality

Sovranisti, europeisti, populisti, cosmopoliti sono definizioni emergenti, entrate nel gergo dei dibattiti politici con cui si qualificano atteggiamenti e convinzioni, si assumono posizioni e si dichiarano appartenenze, che sembrano cambiare il modo in cui siamo abituati a leggere e capire il mondo della politica.

Gli orientamenti tradizionali si basano su destra, sinistra e centro, che riuscivano a sintetizzare rapidamente e contenere al loro interno idee e ideologie, valori e indicazioni. Ognuno si distingue dall’altro. E tuttora ci è comodo utilizzare quegli schemi per affrontare i temi che incontriamo nella realtà: migranti, ambiente, sviluppo, disuguaglianze, euro, debito pubblico, presidenzialismo, democrazia parlamentare. Il problema è che gli orientamenti tradizionali non funzionano come prima e le posizioni degli schieramenti sui temi non corrispondono in modo chiaro al vecchio schema. Allora le parole di prima della politica e quelle emergenti si sovrappongono e intrecciano in modo meno chiaro. Così i cittadini finiscono per valutare le proposte sulla base delle emozioni, dell’istinto, della simpatia. L’invito a partecipare alla vita democratica rivolto ai cittadini assomigliare alla votazione di un reality: si sta alla poltrona e si decide di digitare il codice del concorrente che va sostenuto. La partecipazione come coinvolgimento nelle questioni, come interesse nel confronto per ricercare una comune possibile risposta tende a scomparire.

Ci sono delle trasformazioni culturali nell’immagine della politica che andrebbero valutate per comprendere meglio come costruire partecipazione. Forse le parole nuove ci forniscono degli indizi per trovare nuove classificazioni. Una prima distinzione può essere dentro o fuori. Dipingersi “sovranisti” o “europeisti” da un segnale se voler costruire la propria società da soli o con altri, “populisti” o “cosmopoliti” offre una scelta tra essere concentrati sull’appartenenza a uno specifico gruppo (popolo) oppure sull’apertura verso un orizzonte ampio, globale. Destra e sinistra indicavano e continuano a indicare le strategie per affrontare i temi della società, le nuove parole sembrano indicare più la dimensione da cui partire per rispondere al problema.

Però mancano punti di convergenza, spazi dove tutti si incontrano. Per questo serve una nuova capacità di partecipazione che si genera dalle relazioni e dalla vitalità dei luoghi di relazione (la famiglia, la scuola, la parrocchia, la piazza, fino ai social network), più che dalle parole. Perché in fondo la politica è l’arte per costruire il bene comune e come afferma il filosofo Luigi Alici, nel suo “I cattolici e il paese”: «Il bene comune riguarda essenzialmente la qualità delle relazioni tra le persone, dunque quell’enigmatico panorama invisibile grazie al quale si può continuare a dire “io” senza dimenticarsi del “noi”».

Andrea Casavecchia

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