Pubblicato il 6 Dicembre 2019 | di Redazione
0Ciao Federico, vorremmo che tu fossi qui
“Wish you were here”. La scritta a caratteri cubitali bianchi spicca come un grido sul dorso della felpa nera che segue in silenzio il corteo preceduto dalla bara bianca di Federico che, a sedici anni, si è tolta la vita.
Il 29 novembre, mentre i suoi compagni ripulivano la vallata dai rifiuti per garantirsi un futuro capace di ospitare la vita, Federico ha deciso che un mondo con meno co2 non era sufficiente per scrostare dal suo cuore la polvere sottile del nichilismo che respiriamo tutto intorno e che si deposita, spessa e untuosa, dentro di noi togliendoci il gusto di vivere. Come un segno non criptato della positività del reale, una bella domenica di sole illumina il cielo azzurro che sovrasta il feretro in cui è chiuso il corpo mortale di uno dei nostri figli e il suo giovane, fragile cuore che non ha trovato nulla all’altezza del suo desiderio offerto a prezzo imbattibile del Black Friday. Il brano dei Pink Floyd scaricato da youtube e diffuso dallo smartphone attraverso il minuscolo amplificatore wireless appoggiato sulla cassa bianca è stato l’ultimo saluto dei suoi amici: “Vorremmo che tu fossi qui”. Qui ad assaporare il tepore di questo sole. Varrebbe la pena vivere un giorno in più solo per questo. Tutto il resto verrebbe di conseguenza, si aggiusterebbe, si rimedierebbe, arriverà.
L’applauso che scoppia davanti alla casa che ha ospitato la sua breve esistenza è un tributo alla sua intelligenza, alla sua estrema sensibilità, alla sua straordinaria capacità – dirà in chiesa Flavio, a nome dei suoi amici – di «trasformare in un attimo, con genialità e semplicità da bambino, la noia e la tristezza in allegria». È un omaggio al modo con cui stava in classe, all’attenzione che aveva per ognuno di loro, non al gesto che ha fatto. Lo perdoniamo solo perché gli vogliamo bene.
«Ragazzi – ha detto Antonella, la mamma di Federico, ai tanti amici di suo figlio davanti al corpo senza vita – Federico ha fatto una cosa stupida. La vita è bella, è preziosa». La morte non è la fine di tutto, per chi resta è l’abisso di un dolore senza fondo, il tormento ingiusto e assurdo dei “se” e dei “forse”, che la curiosità morbosa e il chiacchiericcio sciocco amplificano inutilmente con crudeltà. «Davanti al gesto di Federico – affermerà ancora Flavio davanti alla Cattedrale di San Giovanni gremita di ragazzi, di insegnanti, di amici e dei parenti- bisogna fare solo silenzio», perché davanti al mistero della libertà del loro amico persino Dio si è inchinato.
Padre Franco Ottone si rivolge a Federico e ai ragazzi e osa pronunciare la parola che può risuonare davanti ad una bara solo dentro a una chiesa: “felicità”. Quella felicità che i ragazzi inseguono, che Federico cercava senza riuscire a trovare, che ogni uomo che sia rimasto tale non smette di desiderare, c’è. «Nella domenica che apre la prima settimana di Avvento che porta al Natale – afferma don Franco – noi ricordiamo che Dio si incarna nella notte della nostra solitudine. A volte non lo vediamo, spesso non lo cerchiamo, o lo facciamo per strade sbagliate, ma Lui c’è». Quando scopriamo che nulla basta al desiderio infinito del nostro cuore, né i genitori più attenti né gli amici più cari, «è perché desideriamo Dio».
«Il paradiso -ha continuato- è il luogo della festa che ci attende e in cui ritroveremo quelli che amiamo». Una festa, un luogo in cui essere noi stessi, totalmente. Un posto dove danzare, inventando movenze originali capaci di attrarre irresistibilmente lo sguardo e il sorriso di chi ci vuole bene. Ma occorre che una Misericordia ci sollevi. L’amore, infatti, non si esprime tanto nell’impedire all’altro di cadere, bensì nel risollevarlo. E nel portarlo in alto, dalle “Penny Lanes” della quotidianità come dal sagrato della cattedrale di Ragusa, dal quale i compagni di classe gridano «Ciao Federico» e lanciano in alto i loro palloncini colorati, quasi a volerlo accompagnare, lassù, in “the blue suburban skies”.
Mario Tamburino