Pubblicato il 20 Gennaio 2020 | di Redazione
0A Monterosso si festeggia “ancora” Sant’Antonio, il nemico del demonio
Animali di tutte le specie e misure, adunati nello spiazzale antistante la chiesa, in attesa della benedizione.
Questa è uno degli eventi cui si può assistere a Monterosso Almo il 17 gennaio, memoria liturgica di Sant’Antonio Abate. Una devozione antichissima che lega gli abitanti del borgo al Santo Eremita, probabilmente alimentata dalla cultura contadina del posto.
Sant’Antonio Abate, infatti è il santo protettore degli animali poiché, anticamente, in Francia, i monaci antoniani curavano con il grasso del maiale un virus, allora chiamato ignis sacer (fuoco sacro), che causava bruciori e vescicole fastidiosissime.
Il virus in questione è l’herpes zoster, noto oggi come “Fuoco di Sant’Antonio”.
Questo è il motivo per cui, spesso, nell’iconografia del Santo si trova un maialino. L’allevamento di suini infatti, per i monaci antoniani, era necessario sia per il loro sostentamento che per, come si è accennato, la guarigione dell’herpes.
Numerose leggende vogliono il maialino quale compagno fidato di Sant’Antonio. Si narra che, addirittura, grazie alle distrazioni che l’animale provocò ai diavoli nell’inferno, Sant’Antonio riuscì a liberare alcune anime dannate.
A Monterosso Almo , già prima del catastrofico terremoto del 1693, esisteva una chiesa a lui dedicata che, in seguito al crollo, fu ricostruita nella parte nuova del paese, lì dove si trova ancora oggi.
Il culto a Sant’Antonio si nutre di pratiche di pietà popolare che, nel tempo, nel borgo montano non si sono estinte.
Dalla benedizione degli animali all’accensione delle “vampe”, falò che ricordano le fiamme dell’Inferno e i patimenti del Santo durante le terribili tentazioni del demonio (che, tra l’altro, spesso gli si manifestava sotto forma di belva).
Italo Calvino, nelle sue Fiabe Italiane racconta una storia che ricorda il mito greco di Prometeo. Questa volta è però Sant’Antonio a portare il fuoco nel mondo.
“Nel mondo mancava il fuoco e gli uomini, intirizziti dal freddo, si erano rivolti a lui e lo avevano supplicato di procurarne almeno una scintilla per ciascuno o anche una fiammella sola (se proprio non riusciva a fare di meglio!), ché tanto ci avrebbero pensato loro a spartirselo.
Per prima cosa Antonio svegliò l’inseparabile maiale con il quale condivideva una vita di solitudine:
«Maialino, amico mio… lesto alzati, non restare qui a poltrire!
È già ora, il sole sorge. Prepariamoci a partire!»
L’animale, che dormiva come un ghiro nell’angolo meglio riparato della grotta, con un ronfo si girò dall’altra parte, cosicché Antonio fu costretto a scrollarlo.« Maialinooo, non mi senti? Sono già le cinque e venti!» gridò più forte. «Con l’aiuto del buon Dio, dobbiam correre all’Inferno: troveremo lì del fuoco da donare ai miei fratelli.”
I due riuscirono nell’impresa così, i falò di Sant’Antonio si alimentano di quest’altro significato voluto dalla tradizione.
“Sant’Antonio, Sant’Antonio, il nemico del demonio!” ripete con certezza chi, ancora, vive la devozione per il Santo.
Ebbene sì, “ancora”: perché nonostante le distrazioni e le insidie dettate dalla superficialità, c’è chi -aldilà delle leggende e dei racconti- ha un legame di vera devozione per il Santo Eremita e Taumaturgo, conosciuto in tutto il mondo.
È proprio la vera devozione a dare significato alle tradizioni che si portano avanti. Con difficoltà, però. Ignorare i motivi per cui si fa una cosa, spesso, porta a tristi conseguenze: l’oblio dei riti e dunque della storia -carica di devozione- di chi ci ha preceduto e l’indubbia povertà (non materiale) a cui ci condanniamo e che affidiamo al futuro.