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Pubblicato il 25 Febbraio 2020 | di Redazione

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Medico e paziente, un rapporto con al centro la persona che soffre

Un rapporto complesso, quello tra il paziente e il medico.
Due mondi distinti che, inevitabilmente, hanno l’esigenza di incontrarsi nella terapia della cura.
In questa relazione, nel tempo divenuta sempre più complessa, da un lato vi è il sapere del medico, dall’altro, invece, la sofferenza del malato.
La cura –  e non la guarigione – tuttavia non sempre è l’obiettivo perseguito dalla medicina.
Partendo dal fatto che il sapere medico non è matematico, e dunque deve declinarsi ai singoli casi (con ampio margine di errore), nella condizione della malattia l’unica certezza è quella relazione di cura che dovrebbe costituire il vero legame tra dottore e malato .

“Prendersi cura di”, infatti, rappresenta il punto di partenza del rapporto paziente-medico. Si tratta di un’espressione spesso fraintesa: avere cura non significa solo guarire né tanto meno forzare uno specifico caso pur di ottenere un risultato medico straordinario.
Per prendersi cura bisogna partire dal paziente, inteso non come oggetto a cui applicare la disciplina medica ma come soggetto che soffre, vita che sperimenta sul proprio corpo il dolore fisico e, ancora più, la sua fragilità umana. Non si può quindi pensare ad una medicina asettica e distaccata.

Il medico ha cura del proprio paziente solo quando rispetta l’indisponibilità della sua vita, il suo singolo vissuto (non uguagliabile con altri), le sue attese e paure e, a partire da questi, forgia i suoi studi applicandoli al caso specifico.
L’ospedalizzazione, la tecnologia e l’iper-specializzazione della medicina tendono, però, a minare la relazione di cura poiché impediscono la pienezza del rapporto tra i due termini in questione.
E dunque si va dal cardiologo per il cuore, dallo pneumologo per i polmoni, dal neurologo per il sistema cerebrale senza che, delle volte, ci sia comunicazione tra questi. Così, mentre ci si concentra a guarire un problema specifico, spesso ci si dimentica del resto, dell’integrità della persona, insomma. Decine di medici, sempre diversi in base ai turni in ospedale, in pochi secondi decidono come guarire una malattia, dimenticando – spesso – di avere cura del soggetto che, in quella stanza, magari soffre la lontananza dalla famiglia o sperimenta il ricordo di un tragico evento e sicuramente, aldilà di tutto, vive la costante paura della morte. Se non fosse per il sorriso, le parole, il conforto di qualcuno – personale medico e non – gli ospedali potrebbero considerarsi prigioni dove stare finché non si riacquista la salute.

Siamo sicuri che bisogna solo guarire dalle malattie?

O vi è forse l’esigenza di guardarle in faccia e sapere che c’è qualcuno che ci accompagna, ci aiuta a viverle nel migliore dei modi e nel pieno rispetto della nostra persona?

Questa è la questione.

Qui è il dramma o la speranza, forse, che la malattia possa essere considerata un’esperienza da vincere, non da soli.

Alessia Giaquinta

 

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"Insieme" esce col n° 0 l'8 dicembre del 1984. Da allora la redazione è stata la "casa di formazione" per tanti giovani che hanno collaborato con passione ed impegno.



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