Società

Pubblicato il 26 Maggio 2020 | di Redazione

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Tuteliamo la vita con aiuti concreti e uno strenuo impegno culturale

La battaglia per la vita si combatte, si perde o si vince a livello culturale. Fino a qualche mese fa sia che foste in un piccolo paese, sia in una città al suono di una sirena tutti si fermano sia la madre che accompagna i figli a scuola, sia il professionista, sia l’operaio che vanno al lavoro perché passa la maestà della vita, della vita in pericolo. Basta che una vita sia in pericolo perché tutte le altre si fermino.
Ma anche il fatto, nelle nostre realtà, che se ti senti male in un punto della città e ad ogni ora del giorno e della notte, sette giorni su sette parte da un altro angolo della città una squadra di tre, quattro, cinque persone per salvarti e questo sia che tu sia bianco, giallo o nero, piccolo o grande, ricco o povero. E i trapianti? Circa cento persone sono impegnate per tentare di salvarne una e poi, al bisogno, ambulanze, volanti, elicotteri, aerei.
L’idea che sta alla base del nostro Servizio Sanitario Nazionale, che tanta buona prova sta dando di sé in questi giorni, nasce dal principio che ogni vita è preziosa, è un dono, qualsiasi vita. Ma non da molto tempo è così, da poco più di duemila anni, da quando c’è stato Uno che ha detto di essere Figlio di Dio e che eravamo tutti fratelli.
Purtroppo questa coscienza è soggetta a continui attacchi prima e dopo la nascita.
Prima perché non si vuole riconoscere che il concepito, è “uno di noi”, ha il suo patrimonio genetico, unico e irripetibile, diverso da quello della madre e del padre e non lo acquisisce nel tempo, ma subito dopo il concepimento perciò già impedirgli di annidarsi significa ucciderlo, è un aborto o, piu “politicamente corretto”, una ivg. E se è “uno di noi” tutto quello che lo interessa interessa anche me come al più piccolo (evangelicamente parlando) dei miei fratelli, gli è perfino negato un grido di dolore (consiglio la visione del documentario “Il grido silenzioso”, l’ecografia di un aborto, ma ci vuole uno stomaco forte).
Né tanto meno può essere oggetto di una scelta: molti movimenti pro-aborto dell’area anglofona preferiscono definirsi “pro-choice” dove choice sta per scelta e, quindi, si inseriscono tra i “diritti”, mentre nessuna legislazione parla mai di diritto d’aborto, ma, al massimo, solo della sua legalizzazione.
Ammesso e non concesso che possa essere oggetto di scelta, ma di quale scelta? Si può scegliere fra una o più opzioni, ma alle donne che si rivolgono ai consultori non danno tante alternative: se lo vuole lo tenga a sue spese, se non lo vuole ci pensano “loro”.
Invece dopo la nascita ci sono i paladini della “qualità della vita”: ma chi decide se una vita è degna o meno di essere vissuta? Qualsiasi aggettivo attribuiamo alla vita per renderla degna crea una condizione, a cui sottostare, e un giudice che ne esamina la conformità, mentre dovrebbe essere tutelata per il solo fatto di esistere senza “se” e senza “ma”, ma questi sono slogan usati tempo fa per altre lotte legittime quanto si vuole, ma il diritto alla vita sta alla base e prima di tutti gli altri. Esemplificando, al di là degli slogan, la qualità è buona se si ha la salute fisica? Se alla nascita manca qualcosa (un dito, una mano, un arto) si butta via tutto? Sordi e ciechi sono pure destinati ad una vita così miserevole da non meritare di proseguire? E che dire delle diverse abilità mentali? I nostri amici con la sindrome di Down, uscendo dalla mielosa definizione di “dolcissimi”, vivono abbastanza per studiare, lavorare, viaggiare in una parola vivere, ma alcuni Paesi già adesso usano le diagnosi prenatali come screening di massa: l’Islanda si avvia al diventare la prima nazione “down free” con percentuali vicine al 100%.

La cartina al tornasole che rivela i rischi di questa corsa alla perfezione è quando gli stessi problemi intervengono non alla nascita, ma durante la vita. Sono sotto gli occhi di tutti per migliorare la vita gli sforzi della tecnologia per dotare gli uomini di nuova mani, nuovi arti, nuovi sensi (ma Ungaretti era cieco, Beethoven sordo quando scrisse la nona sinfonia e uno dei massimi astrofisici contemporanei Stephen Hawking era affetto da una malattia del motoneurone per cui alla fine riusciva ad esprimersi solo con un sintetizzatore vocale).
Tutto questo è buono, perfino bello, ma disposto su un piano inclinato che si chiama eutanasia. All’inizio c’erano pochi casi pietosi usati come come punti d’appoggio dai radical-nichilisti per fare leva sull’opinione pubblica, quindi i soliti Stati sedicenti evoluti e civili hanno legiferato all’insegna dell’autodeterminazione, della libera scelta dell’individuo. “Libera scelta”? Tra cosa? Quanto la può influenzare prospettare una grama esistenza come zavorra della società? Le leggi parlano degli ultimi stadi di malattie invalidanti, poi si allungano gli ultimi stadi alla semplice diagnosi, si includono malattie non letali fino ad arrivare a sentenze di morte (così sono) per depressione o anoressia. Scivolando, scivolando si travolgono anche quelli che non possono decidere, minori o psicolabili, affidandoli a scelte collegiali sempre meno condivise: se non facesse piangere farebbe ridere leggere che l’Alta Corte di Londra stabilisca che il “miglior interesse” di Charlie Gard (2018- 2019), di 11 mesi, sia sospendere i trattamenti. A questo punto si è insinuato un dubbio ferale per i gestori della salute pubblica: ma vale la pena di spendere tante soldi per tante malattie croniche quando basta una siringhetta di pochi euro (o dollari poco cambia) per sgravare la società (parenti compresi, talvolta) da simili iatture? Forse la migliore (e più economica) cura della malattia è sopprimere il paziente ed a questo punto…
Per questo l’impegno culturale, congiunto all’aiuto di chi è in difficoltà ora, è importante: “gridare sui tetti”, nelle scuole, nella società la verità, scardinare gli inganni edulcorati dell’”antilingua” che trasforma parole terribili come aborto, eutanasia, utero in affitto, manipolazione genetica in ivg, legalità, dignità, diritti, scelte, dono, progresso.
È l’unico lavoro che ci fermerà dal precipitare lungo il piano inclinato dell’individualismo, del nichilismo, cui accennavo prima, e ritrovare e riscoprire i sensi di una vera umanità.

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Enrico Giordano
Volontario C.A.V.

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"Insieme" esce col n° 0 l'8 dicembre del 1984. Da allora la redazione è stata la "casa di formazione" per tanti giovani che hanno collaborato con passione ed impegno.



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