Pubblicato il 3 Giugno 2020 | di Mario Cascone
0Quale Chiesa ci consegnerà in eredità il coronavirus?
Lo confesso: all’inizio avevo pensato che quest’emergenza, dovuta al coronavirus, durasse di meno; mi ero illuso che in poche settimane tutto sarebbe tornato alla normalità; pensavo addirittura che si stesse esagerando nell’adozione di misure restrittive. Per la verità non ero io solo a pensarla in questo modo, perché anche le autorità politiche e sanitarie all’inizio forse hanno preso sottogamba questo virus. I primi provvedimenti restrittivi riguardavano solo le città in cui si era manifestato un focolaio di infezione; l’organizzazione mondiale della sanità ha impiegato un bel po’ di tempo a dichiarare la pandemia; non mancavano quelli che equiparavano questo contagio ad una banale influenza. E invece i fatti ci hanno spiazzato: i contagi sono stati numerosissimi, i deceduti in Italia hanno superato i trentamila, i ricoverati in terapia intensiva sono stati così tanti da aver reso necessaria la tempestiva creazione di nuovi posti negli ospedali.
E la gente come ha reagito a quest’emergenza? Quasi tutti hanno mostrato un grande senso di responsabilità, attenendosi alle prescrizioni imposte dalle autorità. Ma col passare delle settimane la stanchezza psicologica si è fatta sentire, soprattutto nei più piccoli, i quali ovviamente stentano a capire il perché di tutte queste restrizioni e stanno subendo dei traumi per la mancanza di contatti con i loro coetanei e di attività all’aperto. Ma anche gli adulti stanno manifestando stress e fatica ad osservare tutte le limitazioni che ci sono state imposte. Il problema che angoscia tanti è che non si vede ancora una via d’uscita e non si sa fino a quando durerà quest’emergenza. La famosa “fase 2”, nella quale siamo chiamati a convivere col virus, si sta rivelando di fatto una bolla di sapone, perché le restrizioni alla libertà personale sono ancora tante e non si capisce se e quando si potrà tornare alla normalità.
Io penso che oltre all’emergenza sanitaria ed economica c’è anche un serio problema di ordine psicologico e spirituale, che consiste nel ridare alle persone speranza di vita e motivazioni vigorose per superare questa crisi. In questo campo ritengo che la Chiesa possa e debba fare la sua parte, perché è in grado di offrire a tutti, anche ai non credenti, un orizzonte di senso valido e una consolazione robusta. È un dato di fatto che molti, in questo periodo di emergenza, si sono riaccostati alla fede, hanno ripreso a pregare, si sono aggrappati ai social per partecipare, attraverso le dirette streaming, alle messe celebrate nelle varie chiese. Ho registrato in tanti fedeli la grandissima sofferenza di non poter partecipare alla comunione eucaristica e di non poter celebrare dignitosamente i funerali per i propri cari defunti. Ed ho cercato, come tutti i miei confratelli sacerdoti, di farmi portatore di speranza e di consolazione, pregando per le persone più afflitte e tenendomi in contatto telefonico con loro, nell’attesa di poterle riabbracciare e riaccogliere in chiesa.
Quale Chiesa verrà fuori dopo il coronavirus? Difficile dare per ora una risposta compiuta a questa domanda. In linea di massima credo che emergerà una Chiesa ancora più vicina ai poveri, sia materiali che spirituali; una Chiesa che non si limiti a fare “l’infermiera della storia” o il “pronto soccorso” delle emergenze sociali, ma sappia anche offrire una vigorosa consolazione spirituale ai numerosi afflitti e smarriti e sappia anche partecipare ai processi decisionali di guida del Paese. Per raggiungere un tale obiettivo si esige, ovviamente, che ci siano cristiani maturi e capaci di
partecipare con sapienza alla costruzione del bene comune. Questo genere di cristiani può fiorire solo attraverso una fede genuina, nutrita dalla Parola di Dio e dall’Eucaristia. La lunga costrizione a stare in casa ha forse fatto crescere in tanti la capacità del silenzio riflessivo e dell’ascolto consapevole, favorendo un dialogo con Dio più fervoroso e un desiderio ardente di celebrare i misteri della fede. Le cose si apprezzano di più quando non si ha la possibilità di averle. E così certamente l’impossibilità di partecipare alle liturgie eucaristiche ha fatto crescere in molti un bisogno più genuino di queste celebrazioni. È facile pensare che nel futuro le celebrazioni liturgiche siano ancora più dignitose, perché animate da una partecipazione più consapevole dei fedeli. È anche prevedibile che cresca in tanti cristiani il bisogno di “nutrirsi” della Parola di Dio, non solo attraverso le omelie delle Messe, ma anche mediante una catechesi più viva e biblicamente fondata. È verosimile, infine, pensare che il crogiuolo di questo faticoso tempo di restrizioni contribuisca a far nascere comunità cristiane più vivaci, che siano in grado di offrire a tutti la testimonianza trascinante di una fede autentica.
Naturalmente la realizzazione di queste speranze esige che dopo l’emergenza del coronavirus si attui un’azione pastorale vigorosa, che non si limiti ad amministrare l’esistente o a seguire schemi stereotipati, ma sappia proporsi con modalità innovative e sia in grado di coinvolgere anche quelli che vivono ai margini della comunità ecclesiale. Come ci siamo adoperati, in questi mesi, per raggiungere le persone nelle loro case, dando prova di una grande fantasia creativa, così in futuro dovremo continuare ad uscire fuori del tempio e vivere accanto ai nostri fedeli nella normalità della loro esistenza quotidiana. Valorizzando la sofferenza di questi mesi di restrizione potremo far leva sul grande desiderio, presente sia nei cristiani che negli “uomini di buona volontà”, di vivere un rapporto con Dio più ricco e consapevole.