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Pubblicato il 7 Agosto 2020 | di Agenzia Sir

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Parrocchie nell’ottica della prossimità

Dimostrare che «nella Chiesa c’è posto per tutti e tutti possono trovare il loro posto» nell’unica famiglia di Dio, nel rispetto della vocazione di ciascuno, cercando di valorizzare ogni carisma e di preservare la Chiesa da alcune possibili derive, come “clericalizzare” i laici o “laicizzare” i chierici, o ancora fare dei diaconi permanenti dei “mezzi preti” o dei “super laici”. È l’obiettivo dell’Istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, a cura della Congregazione per il Clero, in cui si auspica la collaborazione tra parrocchie e si guarda con favore alla costituzione delle unità pastorali, a partire dalla consapevolezza che «l’appartenenza ecclesiale oggi prescinde sempre più dai luoghi di nascita e di crescita dei membri e si orienta piuttosto verso una comunità di adozione».

«Ripensare non solo a una nuova esperienza di parrocchia, ma anche, in essa, al ministero e alla missione dei sacerdoti e dei laici», la proposta del nuovo documento, in cui si identifica nella prossimità il “fattore chiave” delle unità pastorali, che vanno costituite dal vescovo, previa consultazione del Consiglio presbiterale, tenendo conto «il più possibile dell’omogeneità della popolazione e delle sue consuetudini, nonché delle caratteristiche comuni del territorio, per facilitare la relazione di vicinanza tra i parroci e gli altri operatori pastorali». «Non sono motivi adeguati» per costituire una unità pastorale – si precisa nel testo – «la sola scarsità del clero diocesano, la situazione finanziaria generale della diocesi, o altre condizioni della comunità presumibilmente reversibili a breve scadenza», come la consistenza numerica, la non autosufficienza economica, la modifica dell’assetto urbanistico del territorio.

«L’ufficio di parroco non può essere affidato a un gruppo di persone, composto da chierici e laici», il monito del testo, in cui si mette in guardia da tutte quelle espressioni linguistiche «che sembrino esprimere un governo collegiale della parrocchia». Nel caso in cui, per la scarsità di sacerdoti, «non sia possibile nominare un parroco né un amministratore parrocchiale, che possa assumerla a tempo pieno», il vescovo diocesano «può affidare una partecipazione all’esercizio della cura pastorale di una parrocchia a un diacono, a un consacrato o un laico, o anche a un insieme di persone (ad esempio, un istituto religioso, una associazione)», coordinati e guidati da un presbitero «con legittime facoltà», costituito «moderatore della cura pastorale», al quale «esclusivamente competono la potestà e le funzioni del parroco, pur non avendone l’ufficio, con i conseguenti doveri e diritti». Si tratta, si precisa nel documento, di «una forma straordinaria di affidamento della cura pastorale», da adottare «solo per il tempo necessario, non indefinitamente», perché «dirigere, coordinare, moderare, governare la parrocchia compete solo ad un sacerdote».

«Oltre alla collaborazione occasionale, che ogni persona di buona volontà – anche i non battezzati – può offrire alle attività quotidiane della parrocchia, esistono alcuni incarichi stabili, in base ai quali i fedeli accolgono la responsabilità per un certo tempo di un servizio all’interno della comunità parrocchiale»,si legge nell’Istruzione: «Si può pensare, ad esempio, ai catechisti, ai ministranti, agli educatori che operano in gruppi e associazioni, agli operatori della carità e a quelli che si dedicano ai diversi tipi di consultorio o centro di ascolto, a coloro che visitano i malati». Nessuno di coloro che hanno ruoli di responsabilità in parrocchia può essere, tuttavia, designato con le espressioni di “parroco”, “co-parroco”, “pastore”, “cappellano”, “moderatore”, “coordinatore”, “responsabile parrocchiale” o con altre denominazioni simili, riservate dal diritto ai sacerdoti.

Il vescovo, infine, potrà affidare ufficialmente alcuni incarichi ai diaconi, alle persone consacrate e ai fedeli laici, sotto la guida e la responsabilità del parroco, come, ad esempio la celebrazione di una liturgia della Parola nelle domeniche e nelle feste di precetto, quando «per mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica»; l’amministrazione del battesimo e la celebrazione del rito delle esequie. I fedeli laici possono predicare in una chiesa o in un oratorio, se le circostanze, la necessità o un caso particolare lo richiedano, ma «non potranno invece in alcun caso tenere l’omelia durante la celebrazione dell’Eucaristia». Dove mancano sacerdoti e diaconi, il vescovo diocesano, previo il voto favorevole della Conferenza Episcopale e ottenuta la licenza dalla Santa Sede, può delegare dei laici perché assistano ai matrimoni.

Tra le indicazioni pratiche del documento, figurano l’attenzione preferenziale verso i poveri e l’esigenza di non “mercanteggiare” la vita sacramentale, dando l’impressione «che la celebrazione dei sacramenti – soprattutto la Santissima Eucaristia – e le altre azioni ministeriali possano essere soggette a tariffari». L’offerta per le messe «deve essere un atto libero da parte dell’offerente, lasciato alla sua coscienza e al suo senso di responsabilità ecclesiale, non un prezzo da pagare o una tassa da esigere, come se si trattasse di una sorta di imposta sui sacramenti». «Con l’offerta per la Santa Messa, i fedeli contribuiscono al bene della Chiesa e partecipano della sua sollecitudine per il sostentamento dei ministri e delle opere», si ricorda nel testo. Di qui l’importanza della sensibilizzazione dei fedeli, «perché contribuiscano volentieri alle necessità della parrocchia». I sacerdoti, da parte loro, devono essere esempi “virtuosi” nell’uso del denaro, «sia con uno stile di vita sobrio e senza eccessi sul piano personale, che con una gestione dei beni parrocchiali trasparente».

M.Michela Nicolais

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