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Pubblicato il 30 Ottobre 2020 | di Saro Distefano

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Non il culto delle ceneri, ma la custodia del fuoco

Non esiste cultura umana, quale che sia la latitudine, quale che sia il grado di evoluzione tecnologico (concetto esso stesso assai relativo), che non abbia un preciso quanto consolidato “culto dei morti”.

Da quando si è messo su due piedi, il primo ominide africano ha praticato il culto della morte. Innumerevoli i sistemi e le cerimonie, le pratiche e le soluzioni per onorare chi ha chiuso gli occhi prima di noi.

Certo è che abbiamo capito, come umanità, che la morte è parte della vita. E tale consolidato concetto si è espresso poi in forme molto diverse. Per quanto ci riguarda (e qui intendo i lettori di Insieme, ovvero i residenti nella parte centro-occidentale della Provincia di Ragusa), il culto dei morti è presente da sempre. E non è mai stato abbandonato. Nemmeno dalle nuovissime generazioni.

Un rispetto che oserei definire atavico, un sentimento coltivato con cura. Una presenza arcaica: si pensi alle tante e molto diffuse e sovente anche grandi necropoli di epoca sicula. Ne abbiamo in tutto il territorio e, per quanto quasi tutte spogliate già da secoli (e a volte trasformate in stalle o cisterne) quelle tombe ci riportano alle nostre più antiche radici. Non solo. Una recente scoperta archeologica effettuata per puro caso (come spesso avviene in questo tipo di ricerca) alla periferia Sud di Ragusa da parte di una azienda impegnata in lavori di sbancamento (e che ha immediatamente bloccati per avvertire la Soprintendenza) ha lasciato sbalorditi gli archeologi. In un pianoro che guarda verso il mare e verso la vallata del Fiume Irminio sono state travate due tombe ancora integre, che conservano i resti di uomini e donne di oltre dodicimila anni fa. Di fatto i più antichi ragusani.

E anche per loro i congiunti avevano scavato nel calcare un letto per il sonno eterno. Anche per loro erano stati accesi fuochi votivi.

Oggi auspichiamo la pace perpetua per i nostri cari. Lo facciamo in moderni cimiteri attrezzati, organizzati. Ma alla base del nostro portare i fiori e i lumini, del nostro costruire grandi tombe in cemento o piangere su un tumulo di terra smossa, rimane e si perpetua il sentimento di pena e di gioia. Per la perdita terrena e per la certezza della rinascita. Ecco perché la famosa frase di Gustav Mahler sintetizza e racchiude il sentimento che va tenuto sempre in mente, e coltivato: “non il culto della cenere, ma la custodia del fuoco”. Lui l’aveva pensata per definire la “tradizione”, con riferimento a quella storica e a quella legata a tutti i culti atavici degli uomini. Tra questi il primo, il più importante, considerare la morte parte del ciclo vitale di tutti noi.

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Autore

Nato a Ragusa nel 1964 è giornalista pubblicista dal 1990. Collabora con diverse testate giornalistiche, della carta stampata quotidiana e periodica, online e televisive, occupandosi principalmente di cultura e costume. Laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, tiene numerose conferenze intorno al territorio ibleo.



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