Pubblicato il 7 Maggio 2021 | di Redazione
0Il “giudice ragazzino” proclamato beato, il proprio dovere come unica missione
Fare in modo che, il rapporto su cui si fonda la comunione tra un uomo con un altro, o tra un uomo e la comunità a cui appartiene venga ristabilito dopo aver commesso un reato; allo stesso modo in cui il credente cerca di ristabilire il rapporto che lo lega a Dio dopo averlo infranto con il peccato. Questo concetto, attraverso il suo essere magistrato ed il suo modo di amministrare la giustizia, ha sempre guidato e cercato di applicare, nei suoi 39 anni di vita Rosario Livatino.
Un uomo schivo, un uomo qualunque, un giudice, a prima vista, “come tanti altri” che amministrano quotidianamente la giustizia nei tribunali italiani se non fosse che, quell’uomo qualunque, quel “giudice ragazzino”, come successivamente appellò il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga altri giudici che si trovavano, giovanissimi, ad operare in terra di mafia, è morto trucidato, brutalmente, una calda mattina di settembre del 1990 e il 9 maggio verrà proclamato beato.
Parlare di Rosario Livatino non è cosa semplice. Il rischio, sempre dietro l’angolo, è quello di scadere nella “banalità del bene”, (nella accezione contraria al titolo del libro di Hannah Arendt, “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”). Fare apparire Rosario Livatino un “santino”, un uomo lontano anni luce da un qualsiasi uomo dei suoi tempi, è questo il pericolo in cui potrebbe incorrere chiunque si cimenti a scrivere di Rosario. Di lui sappiamo poco. E, quel poco, proviene dai pochi che lo conobbero nel corso della sua vita. Pochissime le amicizie che si protrassero negli anni, ed anche ai genitori, come del resto accade nella maggior parte delle famiglie, la vita di quel ragazzo, con tutte le sue fragilità, debolezze e complessità, si palesò dopo la sua morte. Nella solitudine quotidiana, nella incomprensione che generavano molti dei suoi comportamenti, nell’imperscrutabilità del suo essere uomo e uomo riservato e discreto, credente e consapevole del ruolo gravoso di amministrare la giustizia. Rosario Livatino poteva apparire eccessivo in tutto quello che faceva. Nel suo essere timido e integerrimo. Rosario non lasciava mai, in quanti lo incontravano, sentimenti tiepidi. Racconta Salvatore Cardinale, già presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, che di Livatino fu collega alla Procura della Repubblica di Agrigento e con cui condivise la quotidianità dell’ufficio come Livatino «conquistava la stima, la considerazione e l’affetto dei suoi colleghi di Procura e degli altri magistrati in servizio a Palazzo di Giustizia di Agrigento. Lo favorivano in tale “conquista” la personalità adamantina, la disponibilità all’ascolto, la propensione al confronto, il modo discreto ma non distaccato di coltivare i rapporti umani. A dette riconosciute qualità personali Rosario Livatino aggiungeva, dal punto di vista professionale, la preparazione eccellente, la notevole capacità di approfondimento, la tenacia non facilmente contenibile, il dono di esposizione sintetica ma, nel contempo esaustiva. Nell’esercizio delle sue funzioni sapeva astrarsi da ogni occasione di possibile condizionamento. Alieno da ogni forma di protagonismo, era un rigoroso custode del segreto istruttorio che rispettava e che pretendeva venisse rispettato dagli altri. La notorietà degli inquisiti o il clamore della “notitia criminis” non costituiva mai motivo per derogare a tale scelta che, se da un lato salvaguardava il buon esito delle indagini, dall’altra tutelava l’immagine dell’indagato nella fase in cui il suo nome non doveva essere dato in pasto alle cronache» (Salvatore Cardinale, Un’Introduzione, una testimonianza in Non di pochi ma di tanti, Salvatore Sciascia Editore). Non ebbe mai esitazioni? Seppe sempre quello che doveva fare. Dopo la sua morte, i genitori trovarono delle agende in cui Rosario aveva annotato, quasi giornalmente, pensieri e osservazioni sulla giornata appena vissuta. Attraverso questi piccoli e quotidiani flash si è cercato di capire un po’ di più l’uomo Rosario Livatino: i suoi tormenti amorosi, il tuo attaccamento ai genitori che non voleva mai deludere, la sua crisi religiosa e la momentanea mancanza di fiducia nello Stato e nell’ordinamento giudiziario. Pensieri, parole, invocazioni di aiuto e disperazione, si ritrovano, scritti in filigrana ed espressi con un ermetismo che colpisce e dimostra, ancora una volta quanto, anche in questo esercizio personalissimo, Rosario Livatino fosse schivo e timido. «17 gennaio 1984. Udienza straordinaria. Processo Alabiso. Terribile e demoralizzante. Ho rinunciato a una cena. 20 marzo 1984. Indagini CORV. E. per i “15”. È pericoloso. (In Procura si stava indagando sui rapporti fra mafia e politica e sugli intrecci mafia-appalti. Livatino passa al setaccio i beni dei clan, facendone controllare provenienza e gestione. Il processo riguardava molti capimafia della zona, a partire dal boss di Canicattì Antonio Ferro, ndr). 24 marzo 1984. È un brutto periodo per il morale. 3 giugno 1984. In mattinata Messa alla Madonna della Rocca con i miei. Pomeriggio in casa. Il mio spirito è nero. Ed il futuro non vedo come possa rischiararlo. 19 ottobre 1984. Ad Agrigento per una riunione improvvisa: un boccone amaro: vogliono togliermi il processo dei “15”. Riflessione a margine del mese di dicembre 1984. Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?».
Il 1984 è forse l’annus horribilis per Rosario Livatino. L’anno in cui sicuramente il travaglio interiore raggiunge l’apice. Non si accosterà più fino al sacramento della Comunione fino al maggio del 1986. Lo annota egli stesso nell’agenda di quell’anno: «27 maggio 1986. Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che nulla di male venga da me ai miei genitori». Rosario in quel biennio, 1984-86, prova una profonda delusione per l’ambiente giudiziario in cui si trova ad operare, avverte la slealtà di qualche collega e prende consapevolezza della inutilità della propria totale dedizione allo Stato. Comincia ad avvertire che l’incorruttibilità non passa inosservata alla criminalità organizzata che comincia a vedere in lui, non il rappresentante della giustizia ma, un avversario pericoloso da combattere. Sapeva Rosario di essere già nel mirino della mafia, sapeva, forse aveva ricevuto qualche avvertimento che, alla mafia quel suo modo di fare, quel suo agire, cominciava ad andare stretto. Ed è lui stesso a palesarlo nel diario minimo dell’Agenda di quell’anno: «3 ottobre 1986. Giornata di ferie. Ho 34 anni. Invoco la benevolenza divina su quelli che restano». Come se sentisse incombere su di lui un destino già segnato ma affidasse a Dio di proteggerlo e di fare in modo che quanto immaginato non si realizzasse. Passeranno 4 anni e quel destino che Rosario Livatino vedeva segnato si manifesterà in tutta la sua crudeltà. Quattro uomini, Paolo Amico, Domenico Pace, Giuseppe Avarello e Gaetano Puzzangaro il 21 settembre 1990 porranno fine alla vita di Rosario Livatino. Un’esecuzione mafiosa in piena regola ai danni di un uomo indifeso che aveva sempre rifiutato qualsiasi forma di protezione della sua incolumità, per evitare che il personale di scorta potesse correre pericolo di morte e che i suoi genitori potessero essere allarmati dalla presenza costante degli agenti.
Cosa fa di Rosario Livatino un uomo che merita di salire agli altari? A queste domande, ha risposto il processo di canonizzazione che lo sta portando a diventare il primo beato in odium fidei. Per chi scrive, ed ha cominciato a conoscere e amare Rosario Livatino un po’ tardi, la sua santità risiede nel suo essere “normale”. Da cattolico praticante sapeva uniformare la sua condotta alle regole della fede in cui credeva, avendo trovato nella religione le necessarie risposte e i necessari stimoli a proseguire nel suo cammino di vita privata e professionale. Scrive egli stesso nella conferenza “Fede e Diritto” del 1986 «[…] Proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. […] E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi di costruttiva contrizione. Ed ancora una volta sarà la legge dell’amore, la forze vivificatrice della fede a risolvere il problema radicalmente».
Il rispetto dell’uomo sempre, sia esso indagato, reo confesso, colpevole o presunto colpevole, in ogni uomo deve essere tutelata la dignità, in ogni uomo è presente l’amore di Dio, ogni uomo merita il rispetto derivante dall’essere creatura di Dio. Una banalità del bene che alla fine palesa tutta la grandezza di un uomo che fino alla fine ha dimostrato amore anche per i suoi assassini.
Marilisa Della Monica