Pubblicato il 28 Febbraio 2022 | di Emanuele Occhipinti
0Perché i laici sono già la Chiesa che è in uscita
Dalla sindrome del turista, inventata nell’adrenalitica esperienza della diretta televisiva dedicata al cammino sinodale della Diocesi di Ragusa, al simpatico siparietto orchestrato dal cardinale Mario Grech, per il quale Alessandro Bongiorno, in un altro articolo di questo numero, arriva ad ipotizzare un “golpe”, i laici sembrano strappare il ruolo di indebiti primi attori nel cammino sinodale diocesano. Facciamo ordine in merito agli episodi citati. Nel corso della puntata di “In cammino” programma su TV2000, del 18 febbraio scorso, il conduttore ebbe a chiedermi quali sono le patologie della nostra diocesi; mi ero preparato sui punti di forza e sulle buone prassi e per rispondere alla curiosità giornalistica di Gennaro Ferrara feci ricorso all’immagine dei turisti che sono soliti visitare ed ammirare le chiese barocche del nostro territorio restando però, seppure estasiati, fuori dalle stesse ad ammirarne l’architettura, i capitelli e le colonne. La sindrome del turista appunto. Così, gran parte dei fedeli laici, non certo quelli che si definiscono impegnati, ma grande parte del popolo di Dio, pensa ancora, dopo anni di Concilio e magistero ecclesiale, che la Chiesa sia roba da vescovo e preti e di qualche esponente particolarmente volenteroso, rimanendo fuori dalla Chiesa, più o meno estasiato, ma sempre a guardare.
Non meno emblematico l’intervento del cardinale Mario Grech in apertura del cammino sinodale a novembre scorso, che, denunciando un certo clericalismo ancora diffuso, che accomuna tutte le Chiese d’Italia, sprona il laicato ragusano ad un nuovo protagonismo, non mancando di suscitare la necessità di una puntualizzazione da parte dei presbiteri. L’intelligenza del relatore, degli intervenuti e dei presenti tutti ha saputo ricomporre la simpatica ma fittizia contrapposizione.
Tuttavia è innegabile: il cammino sinodale, con l’esigenza di evangelizzare le donne e gli uomini del nostro tempo, con l’esigenza di riportare il Vangelo e la testimonianza cristiana negli ambienti di vita, richiama fortemente il ruolo, la partecipazione e la missione dei laici, i quali non possono più permettersi di restare ancora fuori dalla vita della Chiesa o ai margini dell’esperienza di fede che esige l’annuncio più che l’insegnamento. E quando citiamo il mondo laicale non indichiamo solo coloro che si sentono consapevolmente parte del tessuto ecclesiale, ricoprendo un ruolo o qualche compito pastorale, i quali, con un’infelice espressione, li abbiamo sempre chiamati laici impegnati quasi a giustificare il disimpegno degli altri o, peggio ancora, una primogenitura che prelude ad un privilegio. No, intendiamo indicare tutti i laici: cioè tutti battezzati che, in virtù del loro battesimo, sono chiamati a fare propria ed a partecipare della missione della Chiesa che è quella di annunciare la buona novella di Gesù. A tutti loro, indistintamente, spetta la testimonianza del Vangelo e l’animazione cristiana della vita sociale. Questa universalità è il motivo per il quale il laico sembra assumere – permettetelo per l’economia di questo articolo – il ruolo di protagonista. Che non sia così, lo sanno i lettori più studiosi ed in realtà lo sappiamo tutti.
Protagonista dell’evangelizzazione e della missione è tutta la Chiesa; il laico ha il compito di scoprire la sua appartenenza e la sua dignità battesimale per consapevolizzare la sua partecipazione. Questa consapevolezza non sempre cala dall’alto; ha bisogno di formatori e testimoni che sappiano chiamare a questa vocazione. Perché non dimentichiamolo, è una vera e propria vocazione. Vorrei qui dare un contributo di pensiero, tipicamente laicale, sgombrando il campo da un luogo comune nel quale, a me sembra, talvolta cadiamo negli ambienti intra-ecclesiali. Quello cioè di prospettare “la Chiesa in uscita” e considerare questa felice prospettiva come se fosse una serie di nuovi esercizi e compitini per casa in merito al nuovo argomento spiegato a lezione. Voglio dire, forse con un pizzico di faccia tosta, che i laici sono la Chiesa che è già in uscita. Quando educhiamo i nostri figli, siamo già passati dalla pastorale del “campanile” a quella del “campanello” (Mons. Gualtiero Sigismondi, ndr), anzi a quella del manganello, data la difficoltà educativa che attraversano ed hanno attraversato i genitori della mia generazione. Quando con il nostro lavoro tentiamo di umanizzare l’economia e la società, la famiglia o le relazioni amicali, con opere o con il semplice impegno quotidiano, portiamo il fuoco del Vangelo nel lavoro e nelle istituzioni. Quando affrontiamo le fucilate che la vita familiare o lavorativa inevitabilmente ci riserva o quando tentiamo di aiutare gli amici che perdono il lavoro o confortare una parente ammalata, noi siamo già – o almeno penso che siamo – Chiesa in uscita. Dicono i nostri Vescovi che bisogna solo recuperare questa consapevolezza e crescere in questa cultura. Spesso troviamo più gratificante essere Chiesa in ritirata per tutta una serie di fattori che ci vedono realizzati come volontari, laici impegnati, catechisti, animatori della carità mentre fuori ci perdiamo nel mare della complessità e dell’indifferenza culturale. Dentro sono qualcuno, alimento la mia personalità, mi sento utile e un po’ vanitoso di questa utilità. Questa vita da laici è però il coraggioso contributo che siamo chiamati a dare: nel cammino sinodale e oltre.
Certo, non vi nascondo che vivo come voi il difficile discernimento, l’incostanza e la stanchezza se non talvolta l’abbandono di Gesù, lasciato ancora una volta da solo nel Getsemani. Ma per favore, il cammino sinodale non sia una campagna di reclutamento per il coinvolgimento strumentale e funzionale alle cose da fare, ma ricerca di un modo attuale di vivere il Vangelo nella diffusa condizione laicale. Rischieremmo altrimenti di centrare le nostre riflessioni sulla vita interna della Chiesa, che diverrebbe un’astronave fuori dall’orbita terrestre e perpetueremmo quell’altra sindrome che in questo sforzo di analisi patologica mi torna in mente: la sindrome della dipendenza cronica. E qui chiedo aiuto anche ai nostri presbiteri ed a tutti gli educatori e i formatori. Non favorite atteggiamenti di dipendenza. Invogliateci ad una presenza autonoma, libera e viva nella Chiesa come nella casa, tra gli amici o tra le vie delle città. Sosteneteci se ci impegniamo in politica, nel volontariato, nella difesa dei diritti civili; telefonateci almeno una volta al giorno perché non abbia a venire meno la nostra fiducia e vocazione. E ricordateci che l’unica dipendenza da coltivare è l’innesto fecondo nella Chiesa particolare, a cui è intimamente legata la nostra appartenenza vitale alla Chiesa universale ed a Gesù Salvatore. Aiutateci a renderci conto che l’attenzione alla vita sociale non è separabile dall’impegno ecclesiale. E indicateci sempre la preferenza per le esistenze degli invisibili, amici prediletti di Gesù.
Noi in cambio promettiamo di allontanarci dalla sindrome del mondo cattivo, cioè quella tentazione che ci prende ogni volta che vorremmo ricordare a Dio di essersi incarnato in un mondo sbagliato, quasi a rimproverarlo di essersi fatto sfuggire di mano la situazione. Sindrome che ci attanaglia anche nei nostri gruppi sinodali: i giovani sono senza valori! I social ci hanno distrutto! La politica è tutta un ladrocinio! La società non ha più valori! Non ci sono i preti di una volta! A tutti attribuiamo la colpa di “un mondo cattivo”, senza riuscire a fare un po’ di autocritica e di verifica, col solo obiettivo di continuare a stare sul sagrato della chiesa a guardare senza partecipare o rifugiati dentro a vegetare senza donare la vita buona del Vangelo.