Pubblicato il 23 Aprile 2022 | di Redazione
0Che siano uno… a due a due
La celebrazione della messa crismale è stata l’occasione per la consegna ai sacerdoti della prima lettera pastorale di monsignor Giuseppe La Placa che si intitola “Che siano uno… a due a due”. È una lettera incentrata sulla fraternità e la comunione sacerdotale. Si compone di sei capitoletti (Perfetti nell’unità; A servizio del popolo santo di Dio; Santi come Dio; Fraternità presbiterale: dono, conquista, sfida e profezia; A due a due andiamo; Una semplice consegna) e 29 paragrafi nei quali monsignor La Placa tocca tutti i punti sui quali costruire la fraternità presbiterale che è «sfida e profezia», ma è, aggiunge il vescovo, «innanzitutto dono». La lettera si conclude con un invito a inaugurare nuove prassi concrete suggerite, magari, da quella primavera dello Spirito che è il Sinodo. Il vescovo, in particolare, ne indica una che va a scardinare logiche di campanili e muretti a secco. «Auspicherei – scrive nelle “consegne” finali – che questa unità si cominciasse a tradurre in percorsi pastorali comuni tra parrocchie limitrofe, dove l’unità dei sacerdoti diventasse il segno e l’impulso per una effettiva comunione delle comunità che essi servono».
Il vescovo rifiuta ogni etichetta che possa assimilare il sacerdote a un «funzionario del sacro» e riporta il ruolo del sacerdote alla «celebrazione eucaristica come ponte tra il popolo di Dio e il Signore stesso». Monsignor La Placa indica un cammino che parte dall’essere semplici, santi («La santità di vita del sacerdote, prima ancora che ogni altra iniziativa, sarà la più efficace pastorale vocazionale che egli potrà realizzare: “Non mancheranno certo le vocazioni – ancora Giovanni Paolo II – se si eleverà il tono della nostra vita sacerdotale, se saremo più santi, più gioiosi, più appassionati nell’esercizio del nostro ministero”»), testimoni del Vangelo «capaci di essere trasfigurati grazie alla costante preghiera che ci pone in intimità con il Signore», in comunione con Dio e con i fratelli. «La comunione presbiterale non si fonda, pertanto, sui nostri sforzi di collaborazione pastorale e nemmeno sul sincero desiderio di amicizia. Essa è innanzitutto la partecipazione che Dio ci dà del suo misterioso “essere insieme” della Trinità».
Nell’omelia della messa crismale, monsignor La Placa ha esplicitato che «si tratta di contemplare e vivere nelle nostre relazioni fraterne un riflesso di quella bellezza e di quella gioia relazionale che rifulge nel mistero della Trinità di Dio». Una fraternità dell’essere e non soltanto del fare. «Solo superando una visione puramente strumentale ed efficientista sarà possibile sentirci una famiglia sacerdotale».
E, citando la Presbyterorum ordinis, ricorda che «Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo».
Essere al servizio della comunione e vivere l’unità, ha sottolineato il vescovo in un altro passaggio dell’omelia della messa crismale, piuttosto che spendersi da soli in un attivismo convulso «è il dono più importante che possiamo offrire alle nostre comunità che hanno bisogno della testimonianza di una fraternità concretamente vissuta».
Vivere così la fraternità «ci proietta nella dimensione missionaria, come lo stesso Signore ci comanda. In questo dobbiamo essere capaci di allargare i nostri orizzonti e di riuscire a leggere “i segni dei tempi”». Sarebbe «gravissimo» aggiunge più avanti rimanere chiusi nei nostri “uffici parrocchiali” ad attendere i fedeli; e, tuttavia, sarebbe altrettanto grave tenere chiuse le chiese e aprirle solo in orari di “ricevimento”, come se fossero uffici pubblici». E poi ancora, sempre nel capitolo dedicato alla missione, ricorda che «nella dinamica dell’annuncio, nell’obbedienza al mandato missionario che si traduce nelle azioni pastorali, è importante agire sempre nell’unità e nella condivisione e mai per conto proprio». Una riflessione anche sulla «nostra Chiesa di Ragusa è una bellissima realtà perché abitata dal Signore, ricca di iniziative, capace di rigenerarsi, attenta alle varie difficoltà sociali, anche le più nascoste e recondite. Ma come sacerdoti, come battezzati, possiamo accontentarci di fare semplicemente quanto dobbiamo a mo’ di impiegati? Se questo da un lato è giusto, dall’altro, se non è accompagnato dalla condivisione fraterna con lo status dell’uomo, da una sua conoscenza edificata dalla vicinanza costante, può risultare addirittura superfluo. È quindi fondamentale prima di tutto conoscere il mondo di oggi per potere agire e viverci con intelligenza. Il prete vive nel mondo pur non essendo del mondo ma è assolutamente necessario essere al passo con i tempi, viverli senza farsi assorbire da essi».
Compito gravoso? Sicuramente sì se a vincere è la tentazione dell’uomo che da solo si pone davanti a realtà anche complesse. Il sacerdote sa però dove attingere la forza per essere coerente con la sua missione. «Nutrire la vita spirituale è dunque il farmaco contro ogni “abitudine” al quotidiano e contro ogni presunzione; noi semplicemente doniamo la nostra vita per il Signore e per la salvezza delle anime, laddove Egli ci pone».