Pubblicato il 12 Maggio 2022 | di Mons. Paolo Urso
0Omelia di mons. Paolo Urso, vescovo emerito di Ragusa
Fratelli ed amici carissimi,
anzitutto, grazie. Sono particolarmente felice di celebrare con voi l’Eucaristia, in questa chiesa cattedrale, nel ventesimo anniversario della mia ordinazione episcopale. Saluto e ringrazio il Vescovo La Placa, le Autorità e tutti voi qui presenti, ma anche coloro che, fisicamente assenti, sono a noi uniti col pensiero, l’affetto e la preghiera.
Nei giorni scorsi ho riletto con sincera e profonda commozione l’omelia di dieci anni fa e, mentre ricordo con gratitudine tutte le persone “coinvolte” nella mia ordinazione episcopale, ripeto oggi con ancora maggiore consapevolezza una espressione di quell’omelia: «Non ringrazierò mai abbastanza il Signore per avermi inviato alla Chiesa di Ragusa come pastore, fratello ed amico. Voi siete stati per me un magnifico e prezioso dono di Dio».
Da qualche giorno è iniziata la grande settimana, la settimana santa, nella quale celebriamo la passione, la morte e la risurrezione di Gesù.
Cosa dice, oggi, il Signore a ciascuno di noi e alla nostra Chiesa?
Vi offro solo tre spunti di riflessione, lasciandomi guidare dalla prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia.
- «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome».
Queste parole del profeta Isaia ci riempiono di gioia. È bello sapere che il Signore ha pronunciato il nostro nome, quando ancora eravamo nel grembo di nostra madre; che il Signore ci ha chiamato per nome, dandoci del “tu”. Il Signore ci ama e ci chiede di annunciare che Lui è amore e ama tutti.
Anat Gov è una drammaturga israeliana, morta il 9 dicembre del 2012, quattro giorni prima di compiere 59 anni. Nel 2010 ha portato in scena, a Tel Aviv, una sua opera dal titolo “Oh Dio mio!”. Dio, depresso a motivo del comportamento dell’uomo, chiede a una psicologa una visita urgente perché diversamente succederà “qualcosa di terribile”. La psicologa si chiama Ella e vive da sola con il figlio autistico, molto bravo nel disegnare e nel suonare il violoncello. Prima di incontrarlo pensa che si tratti di un uomo anziano, che non vuole dire il suo nome, forse perché appartenente ai servizi segreti israeliani. Il dialogo tra i due ha alti e bassi; talvolta è sereno, talvolta diventa ansioso e aggressivo, anche perché l’uomo afferma di sapere tutto di lei. L’uomo appare molto problematico, dice che la prossima settimana compirà 5.766 anni e sostiene di non avere né padre né madre… Per questo la psicologa pensa che l’uomo che le sta davanti abbia bisogno di consultare uno psichiatra. Ma poi alcuni fatti le fanno sorgere il dubbio sulla sua identità. Vengono affrontate diverse questioni riguardanti la creazione, Adamo ed Eva, l’uccisione di Abele da parte di Caino, il comportamento di Dio nei confronti di Giobbe… C’è un momento in cui sembra di ascoltare parole che riguardano la situazione che, purtroppo, stiamo vivendo. La donna chiede a Dio di avere compassione degli uomini, «perché oggi siamo noi a soffrire della malattia del potere. Siamo noi ad aver bisogno di una terapia, non lei. Lei non uccide più i bambini, adesso li uccidiamo noi. Non fa più piovere dall’alto semplicemente fuoco e zolfo, adesso lo facciamo noi, bombe atomiche che avrebbero raso al suolo Sodoma e Gomorra così in fretta che la moglie di Lot non avrebbe fatto in tempo a voltarsi!» (Anat Gov, Oh Dio mio!, Giuntina, Firenze 2020, pp. 85-86).
Poi Dio fa riferimento a un episodio avvenuto quando la donna aveva compiuto 34 anni: aveva programmato di ammazzare prima suo figlio e poi se stessa. «Perché… non l’ha fatto?», chiede Dio. Dopo un momento di silenzio, la donna risponde: « “Per lei”… Improvvisamente ho sentito che lei… Che lei ci ama… E da quel momento ho guardato al mio bambino come a un regalo. E sebbene non parli e non l’abbia mai sentito dire “mamma” o qualunque altra parola, lui mi dà delle cose che non sono sicura che avrei ricevuto da un bambino normale, mi capisce? E quando lui suona per me o mi abbraccia… questo vale molto di più di mille parole, lo sa? E anche se è solo una mia impressione, non sarebbe potuto succedere senza di lei. Senza… la sua ispirazione» (p. 88).
L’amore di Dio ci rende particolarmente forti nell’affrontare anche le situazioni più pesanti della vita e ci dà occhi nuovi, che ci permettono di vedere tutto da una prospettiva diversa.
Il Signore ci dice: Non dimenticatelo mai, annunciatelo con le parole e testimoniatelo con la vita. Io sono amore e amo tutti. Il mio amore è per sempre!
Vi cito solo alcune espressioni della Bibbia:
«Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (Sal 27,10);
«Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore» (Sal 103/102, v. 8);
«Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio… Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare… Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?… Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,1-8);
«Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15);
«Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66, 13);
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16);
«Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1);
«In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,9-10);
«Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).
- Io ti renderò luce.
Ma non è Gesù la “luce del mondo”? Non è stato Lui a dire: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12)?
Certo ed è stato anche lui che ci ha detto: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,14-16).
La luce è Cristo ed è l’incontro con Lui che ci rende luce. La luce è l’amore di Dio che si riversa su di noi e ci rende luminosi, rischiarando le tenebre della nostra vita. Noi risplendiamo di luce riflessa.
Nel messaggio per la 17ª Giornata mondiale della gioventù, che si svolse a Toronto, dal 18 al 28 luglio 2002, e che aveva come tema “Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo”, Giovanni Paolo II scrisse: «La luce di cui Gesù ci parla nel Vangelo è quella della fede, dono gratuito di Dio, che viene a illuminare il cuore e a rischiarare l’intelligenza… L’incontro personale con Cristo illumina di luce nuova la vita, ci incammina sulla buona strada e ci impegna ad essere suoi testimoni» (25.7.2001, n. 3).
Il mondo ha bisogno di luce “vera”, perché – dice ancora Giovanni Paolo II nello stesso messaggio – «quando la luce va scemando o scompare del tutto, non si riesce più a distinguere la realtà circostante. Nel cuore della notte ci si può sentire intimoriti ed insicuri» (ibidem). Tutti noi facciamo l’esperienza delle difficoltà quando viene a mancare la luce: dove ci troviamo? quale strada bisogna prendere? quali ostacoli ci sono sul nostro cammino? Il Signore ci risponde che è la sua parola la luce per orientarsi sulla strada della vita. Per noi è veramente così? Possiamo dire al Signore sinceramente: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmo 119/118, 105)?
Nello stesso tempo, dobbiamo essere “lucidi” e renderci conto che alcuni non gradiscono la luce, cercano anzi di spegnere qualunque realtà luminosa per evitare che si scopra la verità. Chiunque fa il male, chi compie azioni malvage, ci dice il vangelo di Giovanni, «odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere» (Gv 3,20). E dalla prima lettera di Giovanni apprendiamo che «chi dice di essere nella luce e odia suo fratello è ancora nelle tenebre… chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (2,9-11).
- Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra.
Noi siamo e vogliamo essere una Chiesa “in uscita”. Il Signore ci rende luce “delle nazioni” per portare la sua salvezza in “tutto il mondo”.
Ricordate come si conclude il vangelo secondo Matteo? Con le parole di Gesù ai discepoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).
«Nella Parola di Dio – ha scritto Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24.11.2013, n. 20) – appare costantemente questo dinamismo di “uscita” che Dio vuole provocare nei credenti… Oggi, in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo».
Il rischio di sporcarsi o di ferirsi non deve impedire alla Chiesa di “uscire” per incontrare l’uomo. Ricordiamo le parole di papa Francesco: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37)» (Evangelii gaudium 24.11.2013, n. 49).
Non si tratta, evidentemente, di sollecitare un attivismo convulso, superficiale e vuoto, brillantemente ironizzato da Trilussa in La Tartaruga lemme lemme:
«La Tartaruga disse a la Lucertola:
- Abbi pazienza, férmete un momento!
E giri, e corri, e svicoli, e t’arampichi,
sempre de prescia, sempre in movimento.
Me fai l’effetto d’una pila elettrica…
Te piace d’esse attiva? Va benone.
Però l’attività, quanno s’esaggera,
lo sai come se chiama? Aggitazzione:
forza sprecata. È la mania der secolo.
Correno tutti a gran velocità:
ognuno cerca d’arrivà prestissimo,
ma dove, proprio dove… Nu’ lo sa.
(Acqua e vino. Ommini e bestie. Libro muto, Mondadori, Milano 1965, 186).
Non possiamo dimenticare ciò che l’11 maggio 2008 scrisse papa Benedetto nel Messaggio per la Giornata missionaria mondiale: «Il mandato missionario continua ad essere un priorità assoluta per tutti i battezzati» perché «la creazione soffre. L’umanità soffre ed attende la vera libertà, attende un mondo diverso, migliore; attende la “redenzione”»
Così come non possiamo dimenticare che oggi, come ieri, la pastorale deve essere “audace e creativa”. Non sono io che lo dico. È papa Francesco: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un saggio e realistico discernimento pastorale» (Evangelii gaudium 24.11.2013, n. 33).
Chiediamo alla Vergine santissima, nostra madre, di illuminarci e di guidarci perché non dimentichiamo mai che Dio è amore e ci ama, che Dio ci rende luce per essere persone e Chiesa “in uscita”. Come dieci anni fa, concludo con il riferimento al titolo di un libro di Massimo Gramellini “Fai bei sogni”. Fai bei sogni, Chiesa di Ragusa, e il Signore li realizzerà!