Pubblicato il 22 Marzo 2023 | di Redazione
0Cristo: una presenza da “riconoscere”
La Quaresima è tempo di conversione, un cammino che ci orienta con rinnovata decisione e radicalità a Gesù, il Signore della vita. Un cammino che tende a fare in modo che la nostra vita possa conformarsi sempre più a quella di Cristo. .La conversione, dunque, è un percorso che deve portarci a riconoscere Cristo come il Tutto della vita, il centro del nostro cuore, dei nostri pensieri, dei nostri progetti, dei nostri sentimenti, come l’unico Signore e salvatore della nostra vita. È questa la premessa che ha animato la Catechesi quaresimale del vescovo, monsignor Giuseppe La Placa, che ha avuto come filo conduttore proprio la necessità di riconoscere Cristo. Il vescovo ha offerto alcuni “indirizzi” dove poter incontrare e riconoscere Gesù: nell’Eucarestia, nella Parola, nei fratelli.
- Riconoscere Cristo nel sacramento dell’Eucarestia
«Questo, dunque, il senso più profondo e bello della conversione. Se ci diciamo cristiani è perché – ricorda il vescovo – siamo diventati Cristo. Ma ci chiediamo: come possiamo percorrere, in questo tempo quaresimale il cammino di conformazione a Cristo? Quali ambiti della nostra vita cristiana dobbiamo incentivare per vivere la Quaresima nella logica di un inserimento ancora più integrale nella vita di Cristo». Due i suggerimenti che, a questo proposito, ci offre monsignor La Placa: nelle celebrazione eucarestia e nell’adorazione.
«Che cosa ci dice – si chiede il vescovo nella sua catechesi – la presenza reale di Cristo nell’Eucarestia? Una cosa semplicissima: che Dio è con noi, è l’Emanuele, che noi non siamo mai soli, che la nostra forza, anche nei momenti più impegnativi della nostra vita, viene dalla sua presenza. La prima cosa che noi dobbiamo fare è accorgerci di questa presenza. Accorgerci di qualcuno che c’è sempre. E Lui certamente c’è in ogni frammento della nostra vita. Sapere che è sempre con noi, ci dà tanta sicurezza. E c’è un luogo dove possiamo fare esperienza di quella presenza, dove quella sensazione di una presenza che ci accompagna sempre, diventa forza che trasforma il nostro presente: è la celebrazione eucaristica». Nella consacrazione, «Cristo trasforma in se stesso quello che noi abbiamo offerto». Un esempio può aiutare a comprendere questo passaggio. Il vescovo utilizza l’immagine del concime: una manciata di letame che rende fertile il terreno. «Se quel letame lo offrite, lo mettete nella terra, quella cosa che è uno scarto diventa invece il principio della fertilità, ciò che feconda la terra. Questo è quello che ci ha donato l’Eucaristia: ciò che nella nostra vita è vissuto come peso, come scarto, come qualcosa che puzza (incomprensione, ingratitudine, i fallimenti, tradimenti, ecc.), dato a Cristo diventa concime. L’Eucaristia trasforma lo scarto in fecondità».
Un modo essenziale per riconoscere il Signore e accoglierlo nella nostra vita è sicuramente quello di stare con lui nell’Adorazione eucaristica che è «il modo più semplice, ma quanto mai efficace, per recuperare il primato di Dio nella nostra vita e – ci indirizza il vescovo – per rimettere ordine nella confusione delle nostre relazioni: con Dio, con noi stessi, con altri, con le cose. Per questo è tanto importante che nel periodo quaresimale intensifichiamo il tempo dell’adorazione eucaristica». Il vescovo ha citato Elisabetta della Trinità («L’adorazione è l’estasi dell’amore», Madre Teresa («Sebbene guardando alla Croce sappiamo quanto Lui ci abbia amati, quando guardiamo al tabernacolo, al Santissimo, sappiamo quanto lui ci ami ancora») e Benedetto XVI: («Ricevere l’Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui»). Un concetto che Benedetto XVI ha ripreso successivamente: «Solo nell’adorazione di questa sua presenza impariamo a riceverlo in modo giusto, impariamo il comunicarci, impariamo dall’interno la celebrazione dell’Eucaristia. Amiamo lo stare col Signore! Là possiamo parlare con Lui di tutto. Possiamo esporgli le nostre domande, le nostre preoccupazioni, le nostre angosce. Le nostre gioie. La nostra gratitudine, le nostre delusioni, le nostre richieste e le nostre speranze. Là possiamo anche ripetergli sempre di nuovo: “Signore, manda operai nella tua messe! Aiutami ad essere un buon lavoratore nella tua vigna!”».
- Riconoscere Cristo nella sua Parola: l’ascolto
Il Cammino Sinodale in questa prima fase sta ancora privilegiando l’ascolto. L’ascolto dell’altro. In questo secondo anno soprattutto l’ascolto di quanti vivono sulla soglia o, addirittura, fuori dalla Chiesa. «Sappiamo, però, che senza l’ascolto dell’Altro, con la a maiuscola, non c’è possibilità – ci ricorda monsignor La Placa – di ascoltare per davvero l’altro, con la a minuscola. In questo tempo di Quaresima è davvero provvidenziale che abbiamo la gioia di poter celebrare due solennità che ci fanno contemplare due modelli esemplari di ascolto: la solennità di san Giuseppe e quella dell’Annunciazione. San Giuseppe ha dato la precedenza nella sua vita all’ascolto, «vive di ascolto e che, per ascoltare, è capace di attendere senza stancarsi». Anche nel sonno e nel sogno «ascolta la voce di Dio, entra in sintonia con la Parola che dall’alto viene a plasmare la sua vita. San Giuseppe ha molto da insegnarci in questo senso. La nostra Quaresima sarebbe certamente più autentica se lo prendessimo a esempio di silenzio e di ascolto. Per noi, quasi sempre, il tempo della preghiera è tempo di parole e di pensieri, di letture e di riflessioni, di lodi, ringraziamenti, suppliche e intercessioni. Proviamo a rimanere, in silenzio, davanti al Signore, semplicemente disponendo il cuore all’ascolto del Signore. Allora verrà il momento nel quale una Parola si imprimerà nella nostra mente, con una forza sconosciuta, con una luce mai vista. Perché Dio parla, e parla sempre. Ma è necessario vivere l’attesa e il silenzio nell’ascolto».
La Madonna è «compagna preziosissima in questo stesso cammino di Quaresima, soprattutto in merito alla dimensione spirituale dell’ascolto». Maria custodisce nel cuore la Parola, perché al momento non riesce a capire. Custodisce e attende che quella parola “muta” divenga parlante; che quella parola oscura divenga limpida e luminosa. Il custodire di Maria è, in certo modo, l’attendere di Giuseppe. «Alla scuola della Madonna, il tempo della Quaresima potrà essere periodo propizio – auspica il vescovo – per vivere con rinnovata intensità l’ascolto di Dio e della Sua parola e, conseguentemente l’ascolto dei nostri fratelli nel Cammino Sinodale».
- Riconoscere Cristo nel fratello: la carità
«Qualcuno, parlando della santità, cui tutti siamo chiamati, diceva: “La storia cristiana non si fa con i “se”, ma con i “sì”. È questa – commenta il vescovo nella sua catechesi – una felice intuizione». Il nostro itinerario quaresimale, di conversione a Gesù deve pertanto condurci «a uno stile di vita nel quale, perlomeno, si vede il nostro impegno nel vivere la carità secondo lo stile e il Cuore di Gesù».
A questo punto della catechesi, il vescovo introduce una riflessione sul digiuno e ci indica quello che può considerarsi un peccato contro la carità: la maldicenza. «Qual è – si chiede monsignor La Placa – il digiuno gradito a Dio? La pratica del digiuno, infatti, non è fine a se stessa, non riguarda solo l’astenersi dai cibi e dalle bevande, ma include anche una necessaria ricaduta positiva nella vita: c’è, infatti, un intimo legame fra il digiuno e la conversione della vita, il pentimento dei peccati, la preghiera umile e fiduciosa, e soprattutto l’esercizio della carità fraterna. Certamente il digiuno del corpo è importante, ma solo se collegato con l’intenzione di convertirci, cambiare stile di vita ed esercitare la carità fraterna, altrimenti diventa semplice ritualità, puro formalismo esteriore. La carità fraterna è, dunque, la chiave per comprendere il vero senso e il valore del digiuno cristiano. Senza la carità, infatti, tutte le altre virtù non sarebbero tali. È la carità che dà senso al nostro digiuno. Il digiuno senza la carità non serve e non giova a nulla. La verità e l’autenticità del digiuno risiede, allora, nella crescita nella carità, nell’amore fraterno, che comporta anche la conversione dei nostri pensieri, dei nostri giudizi e delle nostre parole nei confronti degli altri». Papa Francesco ci richiama frequentemente a quello che lui chiama la pratica dello “spellare gli altri”, ossia la maldicenza, il pettegolezzo, la chiacchiera. E anche il vescovo rilancia questo richiamo contro «un “virus” molto contagioso all’interno della Chiesa». Citando Papa Francesco, addita «l’esercizio più deleterio fra noi» proprio nella mormorazione, nel chiacchiericcio, nel parlare male degli altri. Questo, ci dice il Papa, «distrugge la famiglia, distrugge la scuola, distrugge il posto di lavoro, distrugge il quartiere. Dalla lingua incominciano le guerre. Pensiamo un po’ a questo e facciamoci la domanda: io parlo male degli altri? Io cerco sempre di sporcare gli altri? Per me è più facile vedere i difetti altrui che i miei? Cerchiamo di correggerci almeno un po’: ci farà bene a tutti».
- Due modi di presenza del cristiano: luce e sale
Il discepolo di Gesù, così come ci indica il Vangelo di Matteo, si rende presente nel mondo come il sale della terra e la luce del mondo: «due modi di presenza che rispondono all’esigenza – afferma il vescovo – che la fede “si veda”». Come il sale dà sapore ai cibi, è anche simbolo di sapienza, ci aiuta a conservare gli alimenti, così anche «i discepoli devono diffondere nel mondo una saggezza capace di dare sapore e significato alla vita. Senza la sapienza del vangelo che senso avrebbero la vita, le gioie e i dolori, i sorrisi e le lacrime, le feste e i lutti? Il cristiano è sale della terra: con la sua presenza è chiamato a impedire la corruzione, a non permettere che la società, si decomponga e vada in disfacimento: odio, violenza, sopraffazione. In un mondo dove è messa in dubbio l’intangibilità della vita umana, dal suo sorgere al suo spegnersi naturale, il cristiano è sale che ne ricorda la sacralità. Dove si banalizza la sessualità, il cristiano richiama la santità del rapporto uomo-donna e il progetto di Dio sull’amore coniugale. Dove si cerca il proprio tornaconto, il discepolo è sale che conserva, ricordando a tutti e sempre la proposta, eroica a volte, del dono di sé».
Ma il cristiano è anche chiamato a essere luce del mondo. «Ai tempi di Gesù – ricorda il vescovo – la luce era la luce di una candela o di una lanterna, la luce prodotta da un fuoco, una luce viva, cioè, che nasceva da qualcosa che si consumava: la cera, l’olio o la legna. Applicato a noi, questo fatto ci ricorda che non basta un clic su un pulsante perché le nostre opere diventino luce, e se pensiamo che l’opera di fede per eccellenza è il dono di sé, è necessario che qualcosa in noi bruci e si consumi perché questo appaia; detto in altri termini, qualcosa deve morire perché si manifesti la vita, perché si accenda una luce».
Da qui l’augurio per tutti «di essere, in questo nostro mondo spesso “insipido” e immerso nelle tenebre, di essere sale e luce della terra».