Pubblicato il 24 Maggio 2024 | di Enrico Giordano
0Padre Tiboni: «Vi racconto la pioggia che mi ha inzuppato»
«Uno tra i più santi uomini che abbiamo»: così il servo di Dio don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, definì padre Pietro Tiboni, missionario comboniano “di lungo corso”, così leggiamo nel titolo del libro, appena uscito con i tipi di Itaca, che il Centro Socio Culturale Ibleo in collaborazione con il Centro Missionario diocesano ha presentato nell’auditorium della parrocchia di S. Giuseppe Artigiano a Ragusa insieme alla Libreria Flaccavento.
Per descrivere la storia di padre Tiboni, il prof. Tamburino ha fatto propria un’espressione di un proverbio acholi, una delle lingue africane parlate da padre Tiboni: «aboko kot mupwoda» che significa «vi racconto la pioggia che mi ha inzuppato»: la sua è stata «una presenza quieta, ma pervasiva di tutti gli aspetti della vita, nessuno escluso. Un fatto irriducibile che c’entra con il significato e, dunque, con la bellezza possibile, di tutta l’esistenza».
Avventura che inizia a Tiarno di Sopra, nelle valli del Trentino nell’aprile 1925. Il giovane Pietro già undicenne decide di diventare «sacerdote e missionario», innamorato della figura di san Daniele Comboni ne segue le orme; prima in Sudan (1957-1964), poi in Uganda (1970 – 2017) con brevi parentesi di rientro forzato in Italia, passando per la crisi dell’68, la dittatura di Amin, il flagello della diffusione dell’Aids, il genocidio ruandese, la lunga guerriglia nel Nord Uganda.
Proprio in Uganda, a Kitgum, nel 1970 incontra l’autore del libro, Filippo Ciantia, medico, impegnato di un’esperienza di volontariato internazionale (in tutto trent’anni) all’interno di un piccolo drappello di giovani laici (due medici ed un ingegnere con le famiglie) ispirati dall’insegnamento di don Giussani.
Erano stranamente sempre contenti ed uniti dalla fede e padre Tiboni comincia a frequentarli fino ad incontrare nel ‘71 lo stesso Giussani, del quale passerà il resto della vita a cercare di capire il carisma, che “potenziava” la sua vocazione originale.
Una vocazione potente che si esprime anche nel 1975 quando, momentaneamente espulso dall’Uganda, è assegnato ad una parrocchia romana accanto alla caserma Cecchignola ed è qui che incontra il secondo testimone, Giuseppe Poletti, allora poco più che diciannovenne, alla ricerca di un significato anche dentro l’esperienza della “naja” e lo abbraccia con uno sguardo.
Cosa lascia Tiboni a noi fedeli “della domenica”? L’insistenza sulla testimonianza comunitaria dei cristiani, la loro presenza deve essere visibile perché la gente ha bisogno di vedere cose concrete «un’amicizia, una compagnia, una letizia, anche nelle difficoltà».
Dobbiamo anche liberarci dalla tentazione di misurare i nostri sforzi solo a partire dal loro esito, mentre il lavoro del missionario, ma anche il nostro nel mondo – ha concluso Ciantia citando san Daniele Comboni – costruisce le fondamenta, che possono essere nascoste, «di un nuovo e colossale edifizio, che solo i posteri vedranno spuntare dal suolo».