Pubblicato il 24 Luglio 2024 | di Angelo Schembari
0Il vuoto interiore degli adolescenti e come essere genitori autorevoli
In occasione della manifestazione “A tutto volume” ho avuto modo di partecipare all’incontro con Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva che ha presentato il suo ultimo libro “Allenare alla vita. Dieci principi per ridiventare genitori autorevoli”.
L’autore si chiede quale sia il vero compito di un genitore oggi e se si può ritornare ad essere genitori autorevoli. Attraverso dieci riflessioni Pellai ci offre una visione critica dei problemi alla base dell’emergenza educativa che affligge il nostro tempo. Si analizza il viaggio travagliato verso l’età adulta, un percorso che esige responsabilità, accettazione dei propri limiti, gestione degli impulsi e capacità di relazionarsi con gli altri.
Gli adolescenti oggi vivono in uno scenario di grande complessità , in una società fatta di opportunità ma anche di insidie e nuovi scenari come la pervasività del digitale e dei social media che hanno cambiato il panorama educativo generando spesso un vuoto interiore che compromette la genuina felicità dei nostri figli. Una vera e propria emergenza educativa suffragata da ricerche ed evidenze cliniche che rivelano come disagio e sofferenza sono in crescita tra gli adolescenti. L’autore invita genitori ed educatori a riscoprire e riaffermare il proprio ruolo.
Un capitolo del libro è intitolato : Riempire il vuoto interiore. Il rischio di crescere senza Dio. L’autore lo dedica alla cura che oggi viene riservata alla formazione etica, morale e spirituale degli adolescenti. Queste dimensioni nei decenni scorsi erano coltivate all’interno della formazione religiosa che permetteva ai ragazzi di confrontarsi con il concetto di bene e di male all’interno di un percorso formativo ed educativo proposto dalle parrocchie e al quale le famiglie aderivano facendo frequentare ai figli i percorsi di preparazione ai sacramenti e gli oratori. Poi con l’ingresso nel Terzo Millennio la profonda radicalizzazione della società ha messo in crisi tale sistema di valori. La domenica non è stata considerata più come giorno del Signore e i centri commerciali sono diventati le vere cattedrali.
L’autore ricorda la sua esperienza formativa all’oratorio grazie alla quale ha sperimentato da preadolescente e da adolescente la dimensione della preghiera, del silenzio meditativo e della riflessione guidata attraverso la conduzione di sacerdoti ed educatori. Grazie a questa formazione spirituale e religiosa ha potuto comprendere le categorie di bene e di male.
Quindi si chiede cosa accade ai bambini ed ai ragazzi la cui formazione spirituale, etica e religiosa oggi non sembra più avere un progetto, un luogo e un percorso dedicati . Che senso abbia far crescere le future generazioni in un contesto in cui il materialismo, il consumismo e talvolta il nichilismo sembrano essere diventati valori più formativi.
Pellai racconta come, nell’ambito della sua esperienza lavorativa, più volte ha avuto modo di confrontarsi con adolescenti che hanno compiuto azioni trasgressive, anche penalmente rilevanti, della cui gravità non si rendono conto proprio perché non si sono posti la domanda se ciò che stavano facendo apparteneva alla categoria del bene o del male.
Un vuoto interiore alimentato dal deserto che c’è fuori, dalla “mancanza di senso”, da un vuoto interiore che non viene colmato. Un vuoto che è soprattutto etico e morale, un vero e proprio “analfabetismo emotivo”.
La fragilità degli adolescenti è amplificata dalla performatività dei social, dall’iperconnessione che provoca isolamento e solitudine. Pellai parla di “analfabeti emotivi”, una generazione centrata sull’Io fonte di un’enorme fragilità narcisistica, orchestrata dagli influencer, novelli Lucignolo che conducono i nostri figli in un perenne paese dei balocchi dove il virtuale è reale.
Pellai conclude il capitolo riportando l’esperienza di Bell Hook, storica femminista statunitense, che ha narrato non solo il proprio bisogno di Dio ma anche il bisogno di diventarne testimone nella relazione con i suoi studenti da lei identificati come «disperati, proprio perché deprivati e denutriti di una spiritualità religiosa che li aprisse all’incontro con l’esperienza di Dio nella loro vita».
«Cominciai a parlare più apertamente dello spazio che la spiritualità occupava nella mia vita quando mi resi conto della disperazione dei miei studenti, del loro timore che la vita sia priva di significato, di quanto fossero profondi la loro solitudine e il loro vuoto d’amore – afferma Hook – spesso mi chiedevano di dire loro come avevo fatto a non perdere la gioia di vivere».
L’attivista cercava di trovare il modo di parlare delle sue scelte senza lasciare intendere che potessero essere quelle giuste per qualcun altro ma rispondeva «mi sostiene la fede che Dio sia amore, che l’amore sia tutto, che sia il nostro destino».