Pubblicato il 27 Novembre 2024 | di Redazione
0Alaska: così lontana, così vicina!
Benvenuti a Chefornak (pronunzia: Cifornak). Chefornak è un piccolo villaggio di circa 450 abitanti, sperduto nella tundra dell’Alaska, in una vasta zona compresa tra la foce di due grandi fiumi: lo Yukon a nord (quello della corsa all’oro, per intenderci) e il Kuskokwim a sud.
Neppure io sapevo della sua esistenza, fino a quando Suor Kathy, responsabile della pastorale di quella zona, mi ha comunicato che Chefornak sarebbe stata la mia destinazione finale.
Ero già stato una prima volta in Alaska, nel 2018, sempre nella diocesi di Fairbanks, proprio nella stessa zona pastorale. Sei anni fa la mia destinazione era stata Scammon Bay, più a nord e, tutto sommato, sulla terraferma.
Chefornak no. Chefornak è un villaggio adagiato sulla palude della tundra artica, in cui le case sono costruite come (più o meno) moderne palafitte e le strade sono sostituite da passerelle fatte di spessissime travi di legno, simili alle piste per i go-kart, su cui possono transitare – nelle due direzioni – i quad d’estate e le motoslitte d’inverno.
L’unico modo per arrivare a Chefornak, come in tutti gli altri villaggi della zona, è l’aereo: si tratta di aerei monoelica (mi ricordano tanto quello del fumetto di Mister No) da cui dipende sia il trasporto delle persone (massimo 8 posti) che dei beni: per questo motivo, il prezzo degli acquisti al supermercato è altissimo, rispetto ad altri luoghi.
In questo luogo remoto non esistono bar o alberghi: i punti di riferimento sono il supermercato, la scuola, l’ufficio postale e la parrocchia. Il minimo sindacale per la sussistenza, visto che di sussistenza vivono gli abitanti del villaggio. La loro vita ruota attorno alla caccia (alci, foche, leoni marini), alla pesca (salmoni, halibut) e alla raccolta delle bacche nella tundra (red berries, blue berries, black berries, salmon berries, erbe varie), dalle quali dipende il necessario apporto di vitamine per evitare le malattie legate alla loro carenza, come lo scorbuto.
Tutti gli abitanti appartengono alla etnia Yup’ik, e sono imparentati con gli Ynupiak più a nord e con i più famosi e conosciuti Inuit del Grande Nord Canadese e della Groenlandia. Non è il caso di chiamarli eschimesi, perché si tratta di un termine da essi considerato dispregiativo, che, nel migliore dei casi significa fabbricatore di racchette da neve; nel peggiore, mangiatore di carne cruda. Gli Yup’ik si trovano anche sulle coste della Siberia.
E così, mi sono trovato a fare il parroco per quindici giorni in questo villaggio sperduto e remoto.
Con mia grande gioia ho scoperto che la parrocchia è intitolata a Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia, come a creare un sottile filo che – all’interno dell’universalità della Chiesa – collegasse il centro del Mediterraneo, da cui provengo, ad un luogo che può essere tranquillamente definito come gli “antipodi”: dieci ore di fuso orario, cinque voli per arrivare, distante poche decine di miglia dalla linea del cambiamento di data (per cui, guardando verso il Mare di Bering, potevo scorgere già il giorno dopo) e, superata quella linea, a poche decine di miglia dalla Russia.
La chiesa parrocchiale è la più nuova della diocesi di Fairbanks, riedificata nel 2022 dopo che un incendio l’aveva distrutta nel 2004: lì non hanno l’otto per mille, e hanno dovuto attendere pazientemente di reperire i fondi necessari, tramite raccolte e donazioni. Di fronte la chiesa c’è la canonica, essenziale ma confortevole (con l’acqua corrente garantita dalla presenza di un serbatoio da riempire periodicamente portando “a mano” l’acqua da fuori, invito costante alla parsimonia nel suo uso).
Appena entrato in chiesa, mi sono sentito subito a casa: per quanto remoto fosse il villaggio, ho trovato ciò che connota la vita delle comunità parrocchiali dovunque nel mondo: una signora incaricata di prendersi cura della chiesa, chi pensa ai canti e chi coordina i lettori e la recita del Rosario e della Coroncina della Divina Misericordia prima della Messa.
A Chefornak il parroco riesce ad andare per due o tre giorni ogni mese. La Diocesi di Fairbanks è grande tre volte l’Italia, ha 46 parrocchie e 17 preti. Suor Kathy è l’unica religiosa. I sacerdoti, di conseguenza, sono sempre sull’aereo per muoversi da un villaggio all’altro. Questo può far comprendere la felicità dei parrocchiani, che per quindici giorni consecutivi hanno potuto avere la celebrazione quotidiana della Messa, la disponibilità per le confessioni e la Comunione portata ai malati. Anzi, si tratta di un villaggio fortunato perché c’è un diacono permanente che la domenica guida la Liturgia della Parola, legge il vangelo e fa l’omelia in yup’ik, per poi dare la comunione.
Nelle due domeniche in cui sono stato presente, hanno partecipato alla Messa in media una sessantina di persone, tra cui diverse famiglie. Mi sono sentito ancora più a casa anche perché, oltre ai canti in yup’ik, dall’aria un po’ country, ho potuto mettermi a cantare – io in italiano e loro in inglese o yupi’k – Noi canteremo gloria a te e Te lodiamo Trinità, per non parlare dell’alleluia in gregoriano.
Alla partenza ho potuto constatare l’affetto e la gratitudine di tutta la comunità, per la quale ho consacrato – durante l’ultima Messa che ho celebrato – due pissidi di ostie, di modo che per un mese e mezzo la domenica avessero la possibilità di ricevere l’Eucaristia.
Mentre sorvolavo la tundra sul piccolo aereo che mi avrebbe riportato a Bethel, il capoluogo della regione, riflettevo sul fatto che prima o poi anche dalle nostre parti potremmo trovarci nell’identica situazione della comunità di Chefornak. Ho avuto un sussulto, infatti, quando il nostro vescovo, alla conclusione dell’ultima assemblea diocesana, ha ipotizzato la possibilità che a Ragusa restino (e bastino) solo due sacerdoti, per amministrare il Pane e il Perdono che da loro unicamente dipende, al servizio di comunità in cui un laicato maturo sia capace di farsi carico della sua vita e delle sue attività.
Io posso dire di averlo sperimentato, e ciò che ho potuto vivere e constatare in un luogo remoto dell’Alaska potrebbe diventare realtà (e, magari, risorsa) in un non remoto futuro anche dalle nostre parti.
Paolo La Terra