Politica

Pubblicato il 2 Dicembre 2024 | di Vito Piruzza

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Muri, barriere, dazi, sovranismi

Le elezioni del presidente degli Stati Uniti si pongono, se alziamo lo sguardo, in armoniosa continuità con la crescita dei sovranismi che già da tempo interessa anche l’Europa. La ricetta per “fare l’America grande di nuovo” passa per la chiusura a riccio di quel Paese con l’innalzamento di barriere fisiche (per proteggere il territorio dagli immigrati), ma anche di barriere doganali (per proteggere le industrie dalla concorrenza industriale) e di barriere concettuali con il disimpegno sullo scacchiere internazionale. Se questo per un verso costituisce una semplice presa d’atto dei nuovi scenari geopolitici che ci presentano un mondo già nei fatti multilaterale, con una pluralità di nuovi attori che ormai competono sul mercato planetario, dall’altro, come ogni elemento che turba un equilibrio preesistente, costituisce un momento critico fino al conseguimento di un nuovo punto di equilibrio.

Se vogliamo rappresentare plasticamente il mondo che cambia basta osservare che mentre prima tra le due sponde dell’Atlantico si produceva la grande maggioranza della ricchezza mondiale, e costituiva anche il baricentro geopolitico del globo, adesso sono le due sponde del Pacifico a rappresentare il baricentro sia produttivo che commerciale che strategico del mondo: il pericolo per la vecchia Europa in questo processo di cambiamento e di ristabilimento di nuovi equilibri è quello di una crescente marginalità e della fine della rendita di posizione che ci era garantita dal vecchio equilibrio.

Già nella precedente presidenza è stato evidente l’incoraggiamento e la sponda offerta da Trump alla “Brexit”, ed è altrettanto evidente che un governo Usa in procinto di inasprire la competizione commerciale abbia tutto l’interesse a non trovarsi di fronte un’Unione Europea, ma tanti piccoli stati possibilmente in competizione tra di loro.

Tutto questo avviene proprio nel momento di massima debolezza dell’Europa, con i leader dei Paesi più grandi azzoppati (Macron e Scholz sono a fine mandato, molto deboli e assediati da forti partiti antieuropeisti), parecchi Paesi già guidati da leader “sovranisti” e una Commissione Europea molto meno autorevole e omogenea che in passato.

In un contesto di questo tipo quante sono le probabilità che l’Europa riesca ad avere il colpo di reni auspicato da Draghi che ne rafforzi l’autorevolezza internazionale e il peso sia politico che commerciale?

Le opinioni pubbliche europee sono tutte concentrate su argomenti di secondo piano gonfiati ad arte per indurre la partigianeria e il “tifo politico” e sembra che abbiano perso completamente di vista i grandi orizzonti che contrassegnavano la politica del secolo scorso; se più della metà degli elettori resta a casa è dovuto proprio al fatto che la politica non offre orizzonti di speranza, ma diatribe di piccolo cabotaggio.

Non c’è bisogno di avere il dono della profezia per vedere già i tanti piccoli capi di governo europei andare alla corte di Trump cercando di spuntare qualche sconto sul dazio verso i propri prodotti nazionali millantando questo come un trionfo, mentre l’Europa che costituisce l’unica concreta prospettiva del mantenimento di uno standard di vita agiato per i nostri figli langue nell’immobilità.

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