Vita Cristiana

Pubblicato il 22 Dicembre 2024 | di Giuseppe La Placa, Vescovo

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La speranza: l’altro nome della fede

 

Speranza e gioia sono le parole chiave della Catechesi che il Vescovo, monsignor Giuseppe La Placa, ci ha consegnato durante il periodo di Avvento. La nostra speranza ha un nome: Gesù. Per questo la speranza è il «nome nuovo della fede», «la soglia che può essere varcata per poter continuare a comunicare, annunciare e testimoniare il Vangelo». Di seguito una sintesi della Catechesi che può essere scaricata integralmente dal sito della Diocesi di Ragusa.

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  1. Un provvidenziale crocevia

 

Il tempo di Avvento quest’anno si colloca ad un importante crocevia della nostra storia: l’incontro tra il Giubileo della Chiesa universale, che inizierà proprio la notte di Natale, e il Giubileo della nostra diocesi, i cui 75 anni abbiamo già iniziato a celebrare. A questo si aggiunga la cornice del cammino sinodale della Chiesa italiana, che ci vedrà impegnati nella fase profetica.

L’Avvento di quest’anno, di conseguenza, si veste di un complesso di significati che lo connota in modo del tutto particolare. Per evitare la dispersione e ricondurre ad unità tutti gli elementi che ho appena citato, desidero sviluppare la catechesi quest’anno attorno alla virtù teologale della speranza, cercando di declinarla, nella quotidianità della nostra esperienza, a partire dalla parola di Dio che ci accompagnerà durante il cammino di avvicinamento al Natale.

 

  1. Il “ciclo” della Speranza

La centralità della speranza affiora chiaramente nella prima domenica di Avvento. Il Vangelo di Luca contiene due parti di genere apocalittico, riguardanti, cioè, la manifestazione definitiva di Dio nel mondo, con tutti i segni che l’accompagnano.

La descrizione dei segni grandi e terribili contenuta nei vv. 25-26 dovrebbe indurre paura e sgomento. Questo, però, succede per chi è senza speranza. Il cristiano, invece, sa di essere chiamato a risollevarsi. In mezzo a tutti i marosi della storia, all’inquietudine dell’umanità e alle tante paure che attraversano la vita degli uomini; in mezzo agli sconvolgimenti naturali e alle guerre (che, come ne stiamo facendo esperienza, non sono mai mancati nella storia del mondo), la speranza dà la certezza che si vedrà «il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (v. 27).

 

È questa la grande certezza: Cristo è il salvatore della storia. E, tuttavia, contemporaneamente ne è anche giudice. Da questa consapevolezza scaturisce l’esortazione alla vigilanza, che è essa stessa esercizio di speranza: «Vegliate in ogni momento» (v. 3)! Il sostantivo, che in italiano è tradotto “momento”, dal canto suo, è nell’originale greco l’importantissimo termine kairòs, che sta ad indicare il tempo importante in cui avviene qualcosa di fondamentale, e che nei Vangeli sta ad indicare il “tempo compiuto” della venuta del Messia e dell’instaurazione del regno di Dio (cfr. Mc 1, 15).

 

È nella speranza, quindi, che possiamo comprendere il senso profondo della storia, immergendoci in essa come pellegrini in cammino verso la piena e definitiva instaurazione del regno di Dio. Non a caso il motto del giubileo che ci accompagnerà per tutto quest’anno è “Pellegrini di speranza”.

 

  1. Maria testimone di speranza

Una provvidenziale coincidenza ha voluto che quest’anno la seconda domenica di Avvento coincidesse con la solennità dell’Immacolata concezione della Beata Vergine Maria. Maria, nell’estrema libertà con cui si interroga interiormente e con cui interroga l’angelo che le porta l’annunzio che avrebbe cambiato la sorte del mondo, ci fa capire che la speranza cristiana non è appiattita sulla materiale obbedienza alla volontà di Dio. L’assenso di Maria è frutto di ascolto e di discernimento. Anche per noi, pellegrini di speranza, il conseguimento della gioia e della beatitudine dipende dalla capacità di ascoltare e discernere in modo attivo e propositivo la voce di Dio che continua a chiamarci tra i rumori del mondo in cui viviamo, per dirgli, come Maria, il nostro “eccomi!”.

 

  1. La speranza nella quotidianità della vita

La terza domenica di Avvento è, insieme alla quarta di quaresima, una delle due domeniche della gioia. C’è, infatti, un legame inscindibile che lega gioia e speranza declinata nello scorrere della propria vita quotidiana. È quello su cui ci aiuta a riflettere il Vangelo (Lc 3,10-18), in cui Giovanni Battista aiuta a coniugare la speranza nella quotidianità della vita; e lo fa proprio a partire da chi era considerato senza speranza: soldati e pubblicani. C’è una speranza anche per loro, in una quotidianità che si dischiude alla giustizia! E se c’è speranza per chi è radicalmente senza speranza, allora la speranza è per tutti, nessuno escluso!

 

Segno di speranza è anche l’attenzione per i poveri, che lo stesso Battista raccomanda. L’attenzione verso i poveri, come segno di speranza, in un atteggiamento di condivisione, è un richiamo costante nel Magistero di Papa Francesco, concetto ribadito anche nella Bolla di indizione del Giubileo: «Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere».

 

  1. La speranza mette in cammino

E così arriviamo alla quarta domenica, culmine del percorso dell’Avvento. Se durante questo pellegrinaggio che ci ha condotto dalla prima alla quarta domenica di Avvento, abbiamo conosciuto e scoperto cos’è la speranza, non possiamo fare a meno di metterci in movimento, lasciando la nostra zona di conforto, per annunziarla con gioia agli altri e condividerla con loro. È quanto fa Maria nel Vangelo di questa ultima domenica di Avvento (Lc 1,39-45). La speranza non fa rimanere fermi. La speranza è fede che si mette in movimento. La speranza suscita la missione!

 

  1. La virtù teologale della speranza

Ma che cos’è, nella sua natura profonda, la virtù teologale della speranza? Tutti, infatti, possono sperare, ma è il contenuto della speranza che qualifica l’atto e lo fa comprendere diverso dal sentimento o dall’utopia. La speranza cristiana ha come compagne di viaggio che non l’abbandonano mai la fede e la carità. Essa sorge dalla fede e si nutre dell’amore. Senza questa circolarità non sarebbe possibile comprendere la specificità della speranza cristiana che vive di certezza e non di delusione.

 

  1. La speranza non delude

La teologia paolina è estremamente chiara su questo punto; nei momenti cruciali in cui l’apostolo deve descrivere l’esistenza cristiana pone sempre insieme la fede, la speranza e la carità.  Essendo certezza del compimento della promessa, la speranza cristiana “non delude” perché affonda le sue radici nell’amore (Rm 5,5); e non potrà mai essere separata dall’amore. Ma chi ci dà garanzia della nostra speranza e della vittoria sulla sofferenza del presente? La risposta è chiara e inequivocabile: l’amore di Dio per noi è fondamento, garanzia e sostegno del nostro sperare. È il suo amore che ci tiene saldi e legati strettamente a lui. È in forza dell’amore che viene superato tutto ciò che è motivo di sofferenza.

 

  1. Il triplice desiderio che apre alla speranza

Per andare avanti nella vita, infatti, abbiamo bisogno della speranza. La speranza è necessaria nella quotidianità, ma ancora di più quando la lotta tra il bene e il male si profila con grave drammaticità. Ma che cosa concretamente speriamo? Qual è il bene che in realtà desideriamo? Se alcune dimensioni sono condivise con gli altri esseri viventi, come il bisogno di mantenersi nell’essere, l’uomo percepisce tuttavia in sé una diversità, una proprietà che lo rende unico; è quell’impronta che Dio ha lasciato in lui e solo in lui, e che lo rende a sua immagine e somiglianza: e cioè, l’anima. Immergendosi nella propria anima, infatti, l’uomo sperimenta di essere abitato da un triplice desiderio: di verità, di amore e di eternità.

 

Innanzitutto il desiderio della verità, ossia di conoscere il senso della realtà, la sua causa e il suo fine, il significato della gioia e del dolore, il valore della vita e della morte. Dopo la vita sulla c’è qualcos’altro? Dio esiste? E se esiste, è possibile mettersi in comunicazione con lui?

Nell’anima l’uomo avverte inoltre il desiderio dell’amore. A che servirebbe, infatti, scoprire la verità se questa non coincidesse con l’amore, riducendosi ad un diamante splendido come la luce ma freddo come il ghiaccio? L’uomo ha desiderio di ricevere amore.

E infine l’uomo reca in sé il desiderio dell’eternità. Se infatti, insieme a mali della vita, sperimenta anche dei beni, a che valgono questi se prima o poi periscono, dissolvendosi nel nulla? Un bene è veramente tale solo se è per sempre, solo se è capace di durare per l’eternità.

 

  1. La speranza ha un nome: Gesù Cristo

Ma ciò che speriamo, ciò che desideriamo incontrare nel nostro futuro, è realistico o solo una nostra illusione per gestire il mistero del male?

Per noi cristiani la speranza è una «speranza certa», perché essa ha un nome. Non è qualcosa ma qualcuno. La nostra speranza è il Signore Gesù, è lui il bene che ci sta davanti, anzi che viene incontro a noi. Il Signore Gesù è colui, nella cui Risurrezione, Dio Padre pronuncia la parola definitiva sulla storia: l’amore è più forte del male e la vita più forte della morte. Con la sua morte, risurrezione e ascensione al cielo, Gesù fa entrare l’eternità nel tempo e il tempo nell’eternità, perché non vi è speranza definitiva se il bene non è nell’orizzonte dell’eternità. Dunque, come afferma l’Apostolo Paolo, «spes non confundit» (Rm 5,5): la speranza cristiana è certa e non delude.

 

  1. «Senza di me non potete far nulla»

La speranza cristiana viene da Dio

Sperare è vivere totalmente abbandonati nelle braccia di Dio. Vivere la speranza vuol dire avere sempre chiara la coscienza della propria radicale impotenza, vuol dire distruggere l’amor proprio, l’orgoglio. Se l’umiltà è il fondamento della fede, lo è ancor di più della speranza. Perchè tante volte siamo sfiduciati e scoraggiati: perché abbiamo la pretesa e la presunzione di realizzare da soli ogni nostro desiderio, puntando tutto sulle nostre forze e non sulla forza che viene da Dio. «Senza di me non potete fare nulla» dice l’evangelista Giovanni. Noi invece fondiamo la speranza su noi stessi, sui nostri poteri, sulle nostre capacità. E poi ci meravigliamo e ci amareggiamo di non riuscire a raggiungere il fine a cui tendiamo. Non sappiamo essere così umili da fidarci unicamente di Dio.

Ciò non significa imboccare la strada del disimpegno. Anzi. Gesù, presentando il mistero del Regno di Dio attraverso le immagini tratte dal mondo dell’agricoltura, ci indica le ragioni della nostra speranza e del nostro impegno (cfr. Mc 4,26–34) (Parabola del seme che cresce da solo e quella del granello di senape). Ogni cristiano, allora, sa bene di dover fare tutto quello che può, ma che il risultato finale dipende da Dio: questa consapevolezza lo sostiene nella fatica di ogni giorno, specialmente nelle situazioni difficili. A tale proposito scrive Sant’ Ignazio di Loyola: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio» (cfr Pedro de Ribadeneira, Vita di S. Ignazio di Loyola, Milano 1998).

 

  1. La speranza: l’altro nome della fede

Camminando s’apre cammino è il titolo della Lettera Pastorale che vi ho consegnato a settembre nel corso dell’Assemblea Diocesana, in questo speciale anno giubilare per la Chiesa universale e per la nostra chiesa locale. Il cammino è proprio la condizione dei pellegrini di speranza.

Cammino, speranza, professione di fede. Oggi, potremmo dire, che la speranza per molti che non credono, potrebbe essere l’altro nome, il nuovo nome della fede e, in ogni caso, una speranza vera non è altro che un cammino verso la professione della fede.

Davvero, carissimi amici, «la speranza è l’ultima a morire». E se il dramma della nostra epoca è l’affievolirsi della fede, nello stesso tempo, la speranza che abita il cuore di ogni uomo fino al suo ultimo istante di vita, è la soglia che può essere varcata per poter continuare a comunicare, annunciare e testimoniare il Vangelo.

 

  1. Conclusione: camminando s’apre cammino

Alla fine di questa catechesi, desidero formulare a tutti l’augurio che, messi in movimento dalla speranza, possiamo tutti insieme collaborare alla crescita delle nostre comunità, sia parrocchiali che diocesana, con uno spirito autenticamente missionario.

È un anno intenso di impegni e ricorrenze, quello appena iniziato: il Giubileo della Chiesa universale, quello della nostra Chiesa locale nel 75° anniversario della sua fondazione, senza tralasciare il cammino sinodale della Chiesa italiana e, in questo afflato sinodale, la necessità dello sviluppo delle collaborazioni pastorali tra le parrocchie, già avviato e bisognoso di grande attenzione.

Nel respiro della speranza, sulle tracce della quale ci siamo messi in cammino, desidero consegnarvi ancora quanto ho scritto alla conclusione della mia Lettera pastorale: «Carissimi, all’inizio di questo quarto anno del mio ministero, vi chiedo la docilità nell’ascolto e la collaborazione reciproca. Non perdiamo l’entusiasmo, non abbiamo paura delle difficoltà che possiamo incontrare nel nostro cammino: non siamo soli, è il Signore che ci guida! (…) Affidiamoci alla Vergine Santissima, colei che non ha avuto paura di pronunciare il suo “sì” e di aderire al progetto di Dio su di Lei e per la salvezza dell’uomo. Anche a noi il Signore chiede, secondo quanto possiamo dare. Rispondiamo con coraggio e gioia, rimettendoci alla sua volontà e proseguiamo nel percorso intrapreso, nella consapevolezza che Camminando s’apre cammino»[1].

Che sia per tutti noi un cammino di speranza e di gioia. Buon Avvento!

 

[1]     G. La Placa, Lettera pastorale Camminando s’apre cammino, cit, 76-77.

 

 

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