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Pubblicato il 14 Marzo 2016 | di Mario Tamburino

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Intervista al giornalista Giuseppe Di Fazio «Dialogo sì, ma con la propria identità»

La marea di profughi che invano si tenta si cerca di arginare col metodo rozzo del filo spinato o con quello, più elegante, delle modifiche al trattato di Schengen, da un lato, e gli attacchi terroristici di matrice islamica dell’Isis dall’altro, costringono l’Europa a ripensare ad un tema, quello dell’integrazione, che credeva di avere risolto con una parola magica: multiculturalismo. Le stragi di Parigi operate dai terroristi educati nelle scuole della laicissima Francia hanno mostrato il fallimento di quel modello di integrazione e, forse, aperto la via ad un nuovo, più consapevole, percorso.

giuseppedifazioNe parliamo con Giuseppe Di Fazio, caporedattore de La Sicilia ed esperto del dialogo con i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

All’indomani degli attacchi al giornale satirico Charlie Hebdo, l’Europa intera scese in piazza identificandosi con lo slogan: Je suis Charlie. Cosa volle esprimere quella identificazione?

«Si trattò di una reazione, innanzitutto emotiva alla quale seguirono due tipi di atteggiamenti. Il primo chiedeva di ritornare prima possibile alla normalità. Tale volontà, però, esprimeva il bisogno di lasciarsi alle spalle quanto era accaduto per non doverci più pensare. Il secondo, al contrario, si esprimeva proprio nei sopravvissuti di quelle stragi che chiedevano di prendere sul serio gli interrogativi che la realtà aveva fatto emergere».

A quella a Charlie Hebdo sono seguite le stragi di Parigi del 13 novembre. Cosa non ha funzionato nel modello di integrazione francese?

«All’indomani di quegli attacchi molti reagirono chiedendo la chiusura delle frontiere mancando di notare, però, che i terroristi non provenivano dal Medioriente, ma erano cresciuti in Europa. La questione fondamentale riguarda il modello di laicità che si intende costruire. In Francia l’idea di una laicità che estromettesse dallo spazio pubblico l’identità religiosa è fallita. Una laicità positiva deve costituire un luogo di incontro tra identità diverse che dialogano tra di loro. Esiste però un’idea falsa di dialogo. Per dialogare, infatti, è necessario innanzitutto essere consapevoli della propria identità e aperti all’altro».

Possiamo esemplificare l’idea sbagliata di dialogo?

«Intervistato dal nostro giornale, Wael Farouq, intellettuale egiziano musulmano, riferendosi alle iniziative dei presidi italiani che chiedevano di cancellare presepi e natale dalla scuola per non offendere le altre religioni, ha affermato: “Qualcuno si è posto il problema di chiedere ad un musulmano se la rappresentazione della nascita di Gesù lo disturba?. «Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che i musulmani hanno per Gesù un rispetto del tutto particolare, ma soprattutto che noi apprezziamo enormemente coloro che credono».

Qual è il ruolo della scuola nel processo di integrazione?

«Il compito della scuola è quello di recuperare le ragioni autentiche dell’educazione. Essa deve educare ad un uso corretto della ragione; deve insegnare ai propri alunni a porsi domande, a chiedersi il perché di tutto. In secondo luogo la scuola deve mostrare ai ragazzi che essi hanno dentro di sé una “bussola”, dei criteri originari, che permettono loro di rendersi conto di ciò che è vero, giusto e bello e cosa corrisponde all’umano e cosa no. È questa “bussola” che devono lealmente seguire».

Qual è il contributo delle fedi in uno spazio laico positivo?

«Joann Sfar, uno dei redattori di Charlie Hebdo, da ateo, nel suo libro “Se Dio esiste”, afferma che senza credere in qualcosa non si può vivere. Come si potrebbe avanzare, del resto, se si ritenesse che, ad ogni passo, il terreno potrebbe sprofondare sotto i nostri piedi. Ma vorrei raccontare un fatto a cui ho assistito personalmente. Ad una recita natalizia di una scuola dei quartieri popolari di Catania, nel coro che ha proposto i canti di Natale della nostra tradizione c’erano anche bambini islamici. Dopo l’esibizione, c’è stato un rinfresco. Alla fine, spontaneamente, tutti i genitori hanno pulito e sistemato gli spazi utilizzati. La bellezza offerta attraverso quello spettacolo è divenuta fattore di unità e di educazione di tutti».

 

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