Pubblicato il 16 Marzo 2016 | di Mario Tamburino
0Così Camilla si è rialzata
Così Camilla si è rialzata. Cosa sono il limite, la malattia, la disabilità nell’epoca in cui si rivendica il “diritto a non nascere”, se non perfettamente sani? Quale sfida costituiscono aspetti così delicati e profondi della sofferenza dell’uomo per una ragione, quella post-moderna, che tende sempre più a rifiutare ciò che eccede la sua misura; che si emoziona davanti alla musica di Ezio Bosso e che butta via la vita nascente “imperfetta”?
«Esiste un punto di arrivo – afferma Franz Kafka in un aforisma che sintetizza il dramma dell’uomo contemporaneo – ma nessuna via». Le parole del grande romanziere mi tornano alla mente mentre assisto inerme alla scena che mi si palesa davanti affacciandomi dal terrazzo sul quale, insieme ai miei alunni, trascorro il tempo sempre troppo breve della ricreazione.
Sotto, distesa sul cemento del marciapiedi davanti all’ingresso della scuola, c’è la mia alunna Camilla circondata dalle insegnanti di sostegno e dall’assistente che è venuta a riportarla a casa. Non è accaduto nulla di grave; spesso la ragazzina si butta per terra senza ragioni apparenti, sorda ad ogni invito a rimettersi in piedi. Il suo ritardo psichico, che la assimila ad una bambina di un anno, non solo non sembra progredire, ma le fa assumere atteggiamenti che la mettono in pericolo, con le vetture che le passano accanto a pochi centimetri.
Le esortazioni delle prof non sortiscono effetti. Dall’alto del mio punto di osservazione le intimo di alzarsi immediatamente! Niente. Decido allora di scendere, convinto che l’intervento più energico di una figura maschile la possa costringere a sollevarsi. Tutto inutile. Anzi, Camilla sancisce la sua vittoria sibilando con la lingua fra i denti qualcosa che somiglia pericolosamente ad una pernacchia, quasi ad avvertirci che, non solo non è intenzionata a desistere dal suo intento, ma che addirittura comincia a provarci gusto.
Il desiderio di rendersi utili spinge intanto alcuni studenti a scendere giù per le scale e a unirsi al nostro sforzo. Quasi tutti si curvano su di lei con le buone, ma nemmeno il suono affettuoso e rassicurante delle parole di Matteo ottiene il risultato sperato. La loro discesa è stata inutile come quella di angeli impotenti davanti a ottanta chili di ostinazione inchiodati per terra che nessuna forza al mondo sembra potere smuovere.
Costringo tutti a rientrare in classe. I fatti a cui abbiamo assistito, tuttavia, non si lasciano archiviare così facilmente. Ne nasce un fitto dialogo in tramato, perlopiù, di reazioni istintive. Durante la discussione, però, Rosita, la mia alunna che ha bisogno del sostegno, ci sorprenderci tutti. Racconta di sé, del proprio disagio con se stessa, della paura – dice – «di potere trasmettere, un giorno, ai miei figli, attraverso i miei geni» la condizione che la fa soffrire. Le rispondo che tutti noi siamo contenti che ci sia lei nella nostra classe e che saremmo felici se nella vita ci capitasse ancora di incontrare una persona come lei.
Che non possa accadere la stessa cosa anche con Camilla se ci diamo il tempo necessario per trovare la via che ci metta in contatto con lei? Suona la campana. All’uscita Camilla non c’è. Si è alzata. Che cosa l’ha convinta?
Qualcuno le ha detto che arrivava il cane e si è sollevata di scatto. La “via” c’era! Non so chi l’abbia trovata, né se sarà la stessa alla prossima occasione, ma non importa: per questa volta Kafka non ha avuto ragione.