Società

Pubblicato il 27 Giugno 2016 | di Saro Distefano

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Ragusa chiude con il passato ma il futuro ancora non apre

Se mia nonna, Giuseppina Occhipinti, classe 1898, dovesse tornare in vita, anche solo per un giorno, nella sua Ragusa, ma quella d’oggi, si convincerebbe che siamo diventati un popolo di miopi, consumatori di pizze d’asporto e incalliti scommettitori.

Eppure ci fu un tempo a Ragusa che fummo anche intenditori di teatro e fortissimi zappatori, onesti esportatori di gialli parallelepipedi e accumulatori devoti all’antico motto del “testa ccu testa”, in uno all’appuntamento domenicale con l’eucarestia.

E di quel tempo una parentesi, non ampia, la aprimmo nel 1950, per chiuderla, in parte se non tutta, in questi ultimi due o tre anni.

Accade infatti che, per le sempre più incomprensibili dinamiche economico-finanziarie che regolano il mondo, nella nostra piccolissima parte di mondo, che però è da sempre il “nostro” mondo, si assiste a trasformazioni che intaccano proprio quei valori di cui si diceva. Se continuiamo a comunicarci, non abbiamo più tanto da mettere “testa ccu testa”, e osserviamo con apparente indifferenza e reale scorno alla chiusura di quella parentesi aperta nel 1950. Quell’anno e negli anni limitrofi avvia la produzione la cementeria Abcd a Tabuna, aprono la libreria Paolino e l’avveniristico hotel Mediterraneo, il Papa risponde al secolare desiderio di farci Diocesi, apre la Pasticceria Di Pasquale, la Banca Agricola Popolare di Ragusa trasferisce la propria sede centrale nel palazzo in stile Liberty che affaccia su piazza San Giovanni, l’epicentro della vita cittadina.

Di quel percorso, di quella mappa mentale collettiva costruita nei secoli, le arancine e le paste di Giovanni Di Pasquale assumono importanza, diventano un caposaldo. La domenica per i dolci da portare in tavole finalmente dignitose quando non addirittura ricche, dopo secoli di spartana morigeratezza, tutti gli altri giorni per il caffè che sveglia gli impiegati e addirittura, novità assoluta da queste parti, anche il rito dell’aperitivo tra amici che si confrontano su Fanfani e Nenni, su Anastasi e Mazzola, su Spampinato e la tromba d’aria a Mazzarelli. Di Pasquale è stato, per oltre mezzo secolo, un tratto distintivo di questa collettività e non solo per la qualità della Savoia che tanto piaceva a Leonardo Sciascia, quanto per essere un “luogo” della mente, un caposaldo del centro, un posto dove si era stati, almeno una volta l’anno, per quel caldo, caldissimo 29 agosto col rito sacro prima e quello profano poi dell’arancina e del gelato nella coppa d’alluminio ghiacciata.

Non si è lontani dalla vera verità quando si afferma che la chiusura della più famosa pasticceria della provincia, al di là delle stelle Michelin, rappresenta un fatto storico, una cesura col passato, un passato che però nessuno vorrebbe chiudere. Ma dopo la sala trattenimento di contrada Monachella, dove la gran parte dei ragusani ha gridato “bacio bacio bacio” stretti in abiti bianchi e cravatte sudate, chiude anche l’odoroso antro di corso Vittorio Veneto.

Il colmo, il naturale quanto inaccettabile epilogo di una storia iniziata, appunto, nei lontani cinquanta e giunta a quello che sembra ai più un ineluttabile destino di forzato cambiamento, che ha tanto il sapore del decadimento. Le saracinesche abbassate (ma riapriranno mai?) del Caffè Mediterraneo dove crebbero e s’incontrarono migliaia di giovani di almeno tre generazioni, decine e decine di “Affittasi” e “Vendesi” in dammusi che furono negozi di stile in corso Italia, la bella palazzina a tre piani sul lungomare modernissimo, dove un tempo era Alberto, “Il mago del pesce”, che per decenni sfamò indigeni e forestieri, dando loro cernia al sale e polpo bollito, cozze al sugo e sorbetto di limone, e sfamandoli anche di una forte e sana voglia di essere moderni, di essere nel mondo, di essere coinvolti in un flusso che coi suoi tempi, ci faceva incontrare tutti, ma faccia a faccia, senza uno schermo sul quale piegarsi gobbi per cliccare “mi piace” quando si annuncia una morte. Quella morte che fece scappare Salvatore Adamo, lasciando a un destino di declino e demolizione il locale più bello del Mediterraneo, dall’evocativo nome mai dimenticato, almeno nei ricordi di chi ha vissuto la luce, e adesso incontra l’ombra.

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Autore

Nato a Ragusa nel 1964 è giornalista pubblicista dal 1990. Collabora con diverse testate giornalistiche, della carta stampata quotidiana e periodica, online e televisive, occupandosi principalmente di cultura e costume. Laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, tiene numerose conferenze intorno al territorio ibleo.



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