Cultura

Pubblicato il 20 Ottobre 2017 | di Andrea G.G. Parasiliti

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La felicità è dei babbi, la gioia dei Santi

 

 

La Felicità esiste, ne ho sentito parlare. A dirlo è Gesualdo Bufalino, il quale in Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria, esordisce dicendo: Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate.

Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.

Ed è Eugenio Montale.

È tradizione ormai che la felicità sia pensata come uno stato di possessione fugace, che dura poco (16 minuti secondo Bufalino, a cui il saxofonista Francesco Cafiso fa il verso) e che non bisogna toccarla o avvicinarla per non metterla in fuga, al mo’ delle Ninfe o della seduzione che i poeti – gli unici uomini a cui è ancora oggi concessa l’arte d’Amore come se la parola non fosse l’arma più pericolosa – attivano nei confronti delle Muse. Spesso però, ad aver ragione è il critico Georges Bataille, il quale nel 1957 pubblicò un volume che si spiega dal titolo: La letteratura e il male.

Viviamo nell’era dei pessimismi diffusi e dell’incorporeità tutta spiritica del web, della sepoltura New Age-supermarché delle religioni tradizionali (e ricordava giustamente Pietrangelo Buttafuoco appena due settimane fa che “Il diavolo è New Age”) dove con New Age intendiamo l’ecumenismo sfrenato, l’esoterismo non Sufi ma da FestivalOccultilmassonico, lo yoga e la gnosi dei consulenti filosofici e dei dietisti del no carnecadavere sì alle polpette di soia:

San Michele Arcangelo, leggo il programma di Torino Spiritualità e dunque mi precipito da te a Rivarolo Canavese. A Torino parlano ebrei atei, buddisti atei, valdesi, animalisti (di più, antispecisti), sincretisti, psicoanalisti, psicosciamani, psicologi del profondo, psicoterapeuti biosistemici, mediatori, meditatori, camminatori a piedi scalzi, induiste, maomettane progressiste, figli di Alejandro Jorodowsky, figli di Tiziano Terzani, junghiani, funamboli zen, insegnanti di yoga, insegnanti di shiatsu, teologi gnostici, counselor filosofici e psicoenergetici, mai visto un magic shop così fornito, venghino signori venghino, e sicuramente gli spiritualisti andranno. Io invece arrivo in Canavese, entro nella chiesa a te dedicata e ti trovo in forma di statua lignea e ti ammiro mentre stai per assestare una molto materiale spadata sulla testa del diavolo. Sangue, non parole.

Meglio una spadata sulla testa del diavolo che tante parole
21 settembre 2017

Quelle che abbiamo appena letto sono parole di Camillo Langone (mirabili i suoi Pensieri del Lambrusco: contro l’invasione, Marsilio 2016 – rivisitazione del Dizionario Filosofico di Voltaire), il quale Camillo, proprio come il don Camillo di Giovannino Guareschi, dalla finestrella sul mondo dalla quale si affaccia tutte le mattine su ilfoglio.it, propone a colazione riflessioni assai (assai!) difficili da digerire per i lettori fiorellino in testa e di boccabuona.

Al fine di evitare che i vostri occhi, stanchi della premessa così lontana dal tema della “Felicità” si allontanino dalle mie parole e che le vostre braccia mi spintonino in quanto retore senza scopo, vi chiedo di soffermarvi un pochino su questo testo:

Gesù Cristo, portatore dell’acqua viva: una riflessione cristiana sul “New Age”

Come leggerete nella premessa, questo studio “è il frutto della riflessione comune del Gruppo di Studio sui Nuovi Movimenti Religiosi, composto da membri dello « staff » di diversi Dicasteri della Santa Sede: i Pontifici Consigli della Cultura e per il Dialogo Interreligioso (che sono stati i principali redattori di questo progetto), la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani”.

Lo troverete al sito

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/interelg/documents/rc_pc_interelg_doc_20030203_new-age_it.html

Questa mia premessa è doverosa al fine di non lasciarci attrarre dal tranello mulinello infimo e senza uscita, ennesima tentazione diabolica (consentitemelo), di trovare la felicità in questo mondo di vanità e di illusioni in pieno spirito New Age alla John Lennon che ci guarda da laggiù. Ma non è facile capirlo.

Così come dovrebbe orridamente risplendere la grande decadenza della vita, dell’arte e della letteratura moderna e contemporanea, tutta votata all’io, a desideri e pulsioni della persona, alle spinte moderniste che eliminano Dio dalla vita e dall’arte, insomma tutta quella serie di scandali e obbrobri su cui scrisse parole definitive il Santo Padre Papa Pio X nella Lettera Enciclica Pascendi Dominici Gregis, sugli errori del modernismo. Leggetela.

http://w2.vatican.va/content/pius-x/it/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_19070908_pascendi-dominici-gregis.html

La scrittura dello scrittore contemporaneo, come scrive Elemire Zolla (Gli Arcani del potere: Elzeviri 1960-2000, Rizzoli 2009) dal ‘700 in poi e “che dice io”, è sempre letteratura di massa e spesso deviante a tal punto da far rimpiangere, a volte, l’Index Librorum Prohibitorum (mi sia consentito il rimando al mio Libri e altre inquietudini: elogio dell’analfabetismo funzionale, “Operaincerta”, 14 febbraio 2015; o all’altro ancor mio Sul Feroce Saracino di Pietrangelo Buttafuoco, “Torquemada”, 16 maggio 2015).

Come mi ricorda l’amico Mauro Chiabrando della rivista “Charta”, assai opportunamente, incollato al dorso di un volume della Editrice Morcelliana nel 1943 troviamo un talloncino contenente un alto precetto morale: «Non date a chiunque qualsiasi libro: anche se buono potrebbe essere pericoloso rispetto alla età e alla cultura del lettore».

Quindi bisogna abbattere l’idea-massa, da statistiche giornalistiche post-prandiali con ruttino, secondo la quale la lettura aiuti l’uomo nella crescita. Nulla di più idiota. Non è l’atto della lettura in sé ma il cosa egli legga e in quale stagione della propria vita. Dietro il libro non c’è uno scrittore, c’è un invito a cena. Se frequenti un imbecille imparerai soltanto a essere un imbecille graduato.

All’uomo massa restano, tuttavia, alcune scelte:

O lasciarsi bighellonare dal linguaggio magico e potente, nonché occulto, della pubblicità che più pervasiva diventa tanto più si abbassa il volume della radio, giacché noi perdiamo l’attenzione.

Oppure dedicarsi all’effimero, definito dal grande e compianto bibliofilo Roberto Palazzi, “paradigma della leggerezza”.

Immaginando che il nostro interlocutore voglia scegliere l’unica via di scampo data all’uomo massa, e quindi lo sposalizio con l’effimero, il primo passo non sarà – dati i tempi tristi e deserti di allegre brigate – la frequenza dell’altro. Giacché della Persona non rimangono che i Tipi da teatrino romano, manco dei pupi (che almeno ci sarebbe parecchio da dire). Sotto la maschera, dietro la fotoprofilo non si registra altro che una assenza: l’inesistenza della persona.

La nobile pratica dell’oroscopo ellenistico, oggi non ha più bisogno di calcoli astrali. Bastano i dodici segni senza ascendente, senza trigoni e altre diavolerie babilonesi. Gli astri inclinano ma non necessitano, diceva San Tommaso. Oggi inclinano e necessitano giacché non ci sono né persone né individui.

Tuttavia potremmo essere sulla strada giusta, giacché se il primo passo verso l’ascesi è quello di uccidere il manto dell’io e limitare l’uso smodato del verbo Essere, ci stiamo avvicinando per vie traverse stando l’uomo via via perdendo consapevolezza dell’esistenza, sempre più alienato ovunque e in nessun luogo.

Io sono colui che è, rispose Dio a Mosè (Esodo, 3,14). Già Karl Jasper e Martin Heiddeger si erano interrogati circa l’uso della proposizione relativa. Un essere manifesto (Io sono) relativo all’essere eterno e non manifesto (è)…

Senza andare per le lunghe bisogna ricostruire l’uomo. Donandogli prima cosa, la profondità del linguaggio, essendo sempre vero il fatto che la parola non descrive ma determina. La parola crea la cosa. Come può essere felice un uomo che non conosce la propria lingua (in primis il dialetto, in secundis l’idioma italico con tanto di sforzo etimologico antico) e che deve per contro servirsi di una lingua germanica per la comunicazione commerciale di qualunque natura?

Superato il primo livello bisogna sforzarsi di trasformare il volto satanicante ammiccante e ghignante, descritto da Alberto Savinio nella Casa Ispirata, in un dipinto colorato e futurista di risata liberatoria. Sostituire dunque, il ghigno con la risata.

Per questa terapia del riso bisogna rivolgersi all’unico editore-medico che abbiamo avuto in Italia, e stiamo parlando di Angelo Fortunato Formiggini, l’editore ebreo che fra le due guerre diede vita a una collana perfetta nella sua leggerezza: I Classici del ridere. Libri da ridere di qualità, con volumi di Théophile Gautier, Rabelais, Le sollazzevoli historie di Honoré de Balzac etc… con i quali combatteva l’orrore del pensiero unico, serio, incavolato e dunque ghignante che si stava corroborando fino a sfociare nelle leggi razziali e tutto quell’altro ancora che Formiggini non volle vedere, buttandosi giù dalla Ghirlandina, la torre del Duomo di Modena il 29 novembre 1938, non senza aver prima lasciato una divertente lettera di commiato:

Una leggenda fiorisce intorno alla mia Torre: un bimbo precipitò dall’alto e san Geminiano con miracolosa prontezza lo acciuffò al volo e lo salvò. Spero che il Santo non avrà il tempo di salvare anche me. Ma forse una leggenda si formerà lo stesso: C’era una volta un editore modenese di sette cotte, e perciò italiano sette volte, che risiedeva a Roma. Quando gli dissero: tu non sei italiano, egli volle dimostrare di essere modenese di sette cotte e perciò sette volte italiano, buttandosi dall’alto della sua Ghirlandina.

Il 29 novembre 1938 spiccò, dunque, il volo l’editore ebreo Angelo Fortunato Formiggini, l’ideatore della più divertente collana della storia della nostra editoria, e durante il volo si udì un grido, di patria e di amore. Era un Angelo Fortunato che tuonava “Italia! Italia! Italia!”.

Non bisogna formarsi ma sformarsi. Togliersi la forma ricevuta che ci pone ancora come uomini neoprimitivi a interrogarci di fronte all’evidenza dei miracoli sul fatto se Dio esista o no, e su cosa sia e come raggiungere la Felicità. Discorsi da eunuchi bizantini. La forma che abbiamo ricevuto è stata massificante, l’olocausto del genio dalle cui ceneri è germogliato il re del supermercato.

Tolto il ghigno, con la risata può iniziare il cammino verso la perfezione della gioia e della gioia sovrabbondante, “ragionevole perché non più necessaria […] promessa a chi cercò per prima cosa il regno dei cieli”, scrive Cristina Campo alla fine del suo racconto dal titolo Una rosa. La gioia, solo la gioia ci interessa. Di quella data dal rispetto del limite. Della prescrizione della fiaba e del testo Sacro.

Dove si scoprirà che Dio oltre a essere un grande artista (per questo alcune “imperfezioni artigianali nella creazione”, diagnostica Teofilo Gautier, in Io e le mie bestie) è anche un goliarda che ci invita a non prenderci troppo sul serio. È la biologia a ricordarcelo mentre abbraccia l’anatomia. L’uomo non è un parto del cervello, ma figlio di parti ridanciane e innominabili, forse non battezzate. Questa consapevolezza ci porta dritti alla tenerezza nei confronti del prossimo e poi ancora all’invocazione: “Signore, io che, prima ancora di essere un peccatore, sono frutto di così ridicoli incontri, se non mi vieni in soccorso tu, come mai farò?”

La felicità è, invece, una ubriacatura pagana dei “babbi”, degli imbecilli, per questo dura poco, meno della virilità, meno del riso che viene dal vino.

 

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Autore

(Ragusa, 1988). Post-doctoral Fellow della University of Toronto si è laureato in Filologia Moderna all’Università Cattolica di Milano e ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università degli Studi di Catania. Collaboratore del Centro di Ricerca Europeo Libro Editoria Biblioteca della Cattolica di Milano (CRELEB) e, nel 2018, del PRISMES (Langues, Textes, Arts et Cultures du Monde anglophone) dell’Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3, si occupa di Libri d’artista e Letteratura Futurista, Disability Studies e Food Studies. Fra le sue pubblicazioni: Dalla parte del lettore: Diceria dell’untore fra esegesi e ebook, Baglieri (Vittoria, 2012); La totalità della parola. Origini e prospettive culturali dell’editoria digitale, Baglieri (Vittoria, 2014); Io siamo già in troppi, libro d’artista di poesie plastiche plastificate galleggianti per il Global Warming, KreativaMente (Ragusa, 2020); Ultima notte in Derbylius, Babbomorto editore (Imola, 2020); All’ombra del vulcano. Il Futurismo in Sicilia e l’Etna di Marinetti, Olschki (Firenze, 2020). Curatore del volume Le Carte e le Pagine. Fonti per lo studio dell’editoria novecentesca, Unicopli (Milano 2017), ha tradotto per il CRELEB le Nuove osservazioni sull’attività scrittoria nel Vicino Oriente antico di Scott B. Noegel (Milano, 2014). Ha pubblicato un racconto dal titolo Odisseo, all’interno della silloge su letteratura e disabilità La mia storia ti appartiene, Edizioni progetto cultura (Roma 2014). Come giornalista pubblicista, ha scritto per il «Corriere canadese» (Toronto), «El boletin. Club giuliano dalmato» (Toronto), «Civiltà delle macchine» (Roma), l’«Intellettuale Dissidente» (Roma), «Torquemada» (Milano), «Emergenze» (Perugia), «Operaincerta» (Modica), e «Insieme» (Ragusa) dal gennaio del 2010.



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