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Pubblicato il 29 Gennaio 2020 | di Agenzia Sir

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Serrande chiuse, così i nostri quartieri si trasformano in dormitori senz’anima

Dal primo gennaio una decina di attività commerciali “storiche” del quartiere San Giovanni a Ragusa hanno posto fine alla loro attività. Motivi diversi alla base tra cui l’arrivo del momento della pensione per i proprietari e l’intenzione dei figli di non proseguire l’attività. Il fenomeno non è solo ragusano, anche se a Ragusa assume una sua specificità.

Nicola Salvagnin lo ha analizzato per il Sir. Pubblichiamo la sua riflessione.

“Mi hanno stufato, chiudo”: così c’era scritto nei manifesti attaccati alla vetrina di un piccolo negozio della provincia padana, annunciando la svendita per chiusura definitiva. Il proprietario ha spiegato alla stampa che così non riesce più ad andare avanti. E non parlava di concorrenza, in particolare da parte dell’on line.

Il suo atto di accusa andava in direzione del nuovo registratore di cassa da acquistare (600 euro); all’obbligo di dotarsi del dispositivo Pos per i pagamenti elettronici (300 euro), del complesso di corsi da affrontare – importanti quanto onerosi in termini di tempo e soldi – in materia di sicurezza sul lavoro (obbligatori). Fino alla goccia che ha fatto traboccare il vaso: la necessità di dotarsi di un patentino per montare condizionatori d’aria, attività che fa da 40 anni: 1.500 euro per il corso.

A questo punto, la serranda si è abbassata, così come sta accadendo a ritmi vertiginosi in ogni piccolo centro della nostra vasta Italia, in ogni periferia non frequentata dal turismo, in ogni quartiere in prossimità di un grande centro commerciale.

Inutile guardare il saldo tra negozi aperti e quelli che ogni anno chiudono. È la dinamica a essere interessante: sono falcidiati i cosiddetti negozi di prossimità; aprono come funghi quelli realizzati in grandi centri commerciali che sorgono ormai ovunque: nelle cinture urbane come nei centri cittadini; dentro gli stadi di calcio come negli aeroporti; in vere e proprie “città dello shopping” come – oramai preponderanti – sul web.

Chiudono insomma le botteghe, il piccolo commercio che serviva l’area circostante – il panificio, il macellaio, la merceria, l’edicola –; l’elemento vitale per considerare un abitato un posto vivibile e non un dormitorio. Quelle botteghe erano la differenza tra il commercio diffuso italiano e i grandi mall americani, a tutto vantaggio del panorama tricolore. Oggi, invece: America.

A pagare il conto sono i più deboli, chi ha meno reddito, soprattutto gli anziani che vedono i tre etti di pane e la confezione di latte spostarsi a chilometri di distanza. E non tutti hanno la forza di salire in auto per fare la propria micro-spesa. Spesso, non hanno nemmeno l’auto.

Anche chi è più giovane e attivo vede cambiare un paesaggio urbano in modo importante. Per una passeggiata con sguardo sulle vetrine occorre ormai dirigersi verso questi stranianti centri commerciali, surrogati di centri cittadini oramai svuotati da incombenze, burocrazie, una selva di norme tutte giuste, tutte corrette, tutte necessarie, tutte però soffocanti (se messe insieme) per chi compie ogni giorno un atto di fede nell’alzare le serrande e aprire il negozio. Fino a quando non ce la fa più e sbotta: mi hanno stufato.

Nicola Selvagnin

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