Vita Cristiana

Pubblicato il 14 Febbraio 2020 | di Mario Cascone

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No al delirio di onnipotenza dell’uomo: riassaporiamo il senso del nostro limite

Viviamo oggi in una sorta di delirio di onnipotenza, che da un lato pone l’uomo come unico autore del suo destino, dall’altro finisce con lo sgretolare la ricchezza ontologica della persona. La pretesa dell’uomo di essere unico arbitro della sua vita lo fa precipitare di fatto in una condizione di grande precarietà esistenziale.

La cultura dell’efficientismo produttivo, oggi tanto diffusa, esalta i soggetti forti, belli, capaci, mentre spiazza quelli più deboli e inefficienti, i quali si sentono smarriti in una competizione che li vede perdenti in partenza.

La cultura dell’edonismo utilitaristico, anch’essa imperante nel nostro tempo, suggerisce un continuo esaudimento dei desideri, ma porta di fatto ad una grave forma di insoddisfazione esistenziale, perché, una volta esauditi alcuni desideri, se ne presentano inevitabilmente altri da soddisfare, perpetuando così una catena ininterrotta di bisogni spesso fittizi, che a lungo andare sfianca e deprime.

La verità è che perdere la capacità di accettare le frustrazioni e le fragilità non ci aiuta a crescere. L’uomo infatti matura in modo particolare attraverso l’esperienza del dolore, che lo aiuta a fare i conti con se stesso e con i suoi limiti, ma anche ad aprirsi a relazioni sane e sananti con gli altri. Fra le relazioni interpersonali più ricche ci sono, infatti, quelle coltivate nell’esperienza del dolore. Questo ci porta a dire che non è una cosa salutare smarrire la conoscenza del nostro limite, perché questo ci porta fuori strada, anzi spesso ci conduce ad un vicolo cieco.

Dal punto di vista squisitamente etico su questa strada si arriva ad eliminare la tensione tra ciò che si deve e ciò che non si deve fare per sostituirla con quella tra ciò che si riesce e ciò che non si riesce a fare. Il che significa che ogni cosa viene misurata col metro del successo e dell’efficienza. Ma questo sfocia nel risultato che molti si sentono inadeguati e perdenti. Sono tanti infatti quelli che oggi sperimentano un profondo senso di inadeguatezza.

È probabile che è questo insieme di fattori a provocare la crescita esponenziale di patologie depressive ed un  uso massiccio di psicofarmaci, che nasconde talvolta il tentativo di narcotizzare la propria psiche, riducendo il più possibile la percezione del vuoto esistenziale. Ma questa ovviamente non appare come la strada migliore da praticare.

Qual è allora la possibile via d’uscita? Quella di riassaporare il senso del nostro limite, della nostra strutturale fragilità e finitezza. Non è bene fuggire terrorizzati di fronte alla nostra precarietà esistenziale, magari rifugiandosi nell’iperattività stordente, che rappresenta solo un malcelato tentativo di fuga. È bene invece guardare in faccia i nostri limiti e i nostri insuccessi. Li chiamiamo “insuccessi” e non “fallimenti”, perché dobbiamo credere fortemente nella capacità dell’uomo di elaborare il proprio soffrire in una chiave costruttiva.

Per fare ciò può essere di grande aiuto la fede, a condizione che essa sia intesa nel giusto senso. Non parliamo, ad esempio, della fede come narcotico dell’esistenza, vissuta per eludere i problemi senza avere il coraggio di affrontarli, rifugiandosi in un misticismo che fa fuggire dalla realtà. Questa non è la fede, ma un’evasione in un mondo irreale che riesce solo a tamponare i problemi del disagio esistenziale, ma non a risolverli.

La fede non è nemmeno la coltivazione presuntuosa di certezze, come se il credere in Dio preservasse dai dubbi, dagli interrogativi, dalle oscurità. La fede non è la piena luce, non è sapere tutto o capire tutto, ma è avere abbastanza luce per superare i momenti di oscurità. Comunque c’è posto, nell’itinerario di fede, per la ricerca e per l’approfondimento della verità.

Non pensiamo nemmeno alla fede come la pretesa di scalare con le sole proprie forze l’altezza che conduce a Dio. In particolare la fede cristiana non ritiene che sia l’uomo a salire fino a Dio, ma crede nell’esatto contrario: è Dio che scende al livello dell’uomo, facendosi egli stesso uomo, ossia assumendo la carnalità, la fragilità strutturale della nostra esistenza. Il Dio di Gesù Cristo è “l’uomo dei dolori che ben conosce il patire”, venuto a compatire le nostre infermità e ad assumerle su di sé nel sacrificio della Croce.

L’esistenza umana è indubbiamente faticosa, dura, difficile, ma anche affascinante ed impegnativa. Dio la condivide con noi, decidendo di non starsene nell’alto dei cieli a guardare indifferente ciò che accade sulla terra, ma di immergersi egli stesso nei drammi della storia, accettando di soffrire con noi e per noi. Possiamo dire che, in Cristo, Dio soffre umanamente perché l’uomo possa vivere divinamente. La sofferenza di Dio infatti è finalizzata alla felicità eterna dell’uomo.

 

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Autore

Sacerdote dal 1981, attualmente Parroco della Chiesa S. Cuore di Gesù a Vittoria, docente di Teologia Morale allo studio Teologico "San Paolo" di Catania e all'Istituto Teologico Ibleo "S. Giovanni Battista" di Ragusa, autore di numerose pubblicazioni e direttore responsabile di "insieme".



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