Vita Cristiana

Pubblicato il 9 Marzo 2020 | di Rosanna Massari

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Promotori di fraternità e responsabilità lungo la frontiera del nostro tempo

09In occasione dell’assemblea diocesana elettiva di Azione Cattolica, abbiamo avuto il piacere di incontrare il presidente nazionale dell’associazione Matteo Truffelli con il quale abbiamo riflettuto sul ruolo del laico oggi  e non solo.

Secondo lei quanto è realmente cambiato il ruolo del laico nella Chiesa post-conciliare?

«Al di là di tutte le difficoltà, le lentezze a volte le incoerenze con cui è stato definito il ruolo dei laici all’interno della Chiesa, io penso sicuramente che in questi anni si siano fatti molti passi avanti da questo punto di vista. Oggi in tantissimi servizi, in tantissimi momenti si vedono laici protagonisti non solo nel servizio pastorale, ma anche in senso culturale, dentro gli strumenti di comunicazione, nell’impegno sociale. Detto questo la tentazione clericale c’è sempre e continuerà ad esserci sempre. Non è solo una tentazione del clero ma a volte anche dei laici, cioè il ridurre il proprio protagonismo dentro la comunità ecclesiale a svolgere delle funzioni ecclesiali. Questo penso sia il vero nodo, il vero snodo, il non ridurre il protagonismo laicale a delle funzioni perché significa pensare la Chiesa stessa come un insieme di funzioni, invece la Chiesa è un popolo che cammina vivendo e testimoniando il Vangelo».

In una sua pubblicazione ( Da credenti inquieti, in cerca della buona speranza) lei parla di credenti inquieti. Quanto si scontra questa idea con il rischio di chiudersi in questo clericalismo?

«Su questo dobbiamo sempre tornare a dirci che la nostra fede non è un anestetico, non è qualche cosa che ci mette al riparo dalla vita, la fede è qualcosa che ci spinge a sperimentare la vita fino in fondo  con tutte le sue tensioni, difficoltà, gioie e ricchezze. La fede non è qualcosa che ci possa acquietare, ma qualcosa che inevitabilmente ci rende inquieti, anche rispetto all’urgenza che dobbiamo avvertire di condividere la nostra fede con tutti, non tanto per spirito di proselitismo, quanto per un bisogno di rendere possibile a tutti di sperimentare ciò che ha fatto bella la nostra esistenza. Anche in questo ci si deve misurare con il rischio della clericalizzazione, nel senso di ridurre la fede a una serie di precetti o di verità definite, di risposte per qualunque domanda  in ogni situazione, mentre invece la fede è fondamentalmente farsi scuotere dalle domande, perché la fede è, almeno nelle sue radici, affidamento, fiducia, è abitare nelle proprie domande sapendo di poter contare sull’amore del Padre».

Bachelet ci esortava ad “amare il tempo in cui viviamo”. Quanto per un cristiano risulta concreta questa affermazione?

«Tutta la vita di Vittorio Bachelet ci offre la testimonianza esemplare di un credente capace di abitare in maniera significativa il proprio tempo: nella dimensione familiare così come in quella ecclesiale, in quella politica come in quella culturale. Spazi in cui Bachelet seppe mettere in gioco la propria fede a servizio della costruzione di una società più fraterna, più giusta, più umana. È da questo atteggiamento di fondo che possiamo ricavare il cuore della lezione di Bachelet per i credenti di oggi, e in modo particolare per i credenti laici, chiamati a spendere i propri talenti sul terreno non facile dell’impegno sociale e politico. Dobbiamo avere la capacità di riconciliarci con il tempo in cui viviamo, con uno sguardo contemplativo. Come diceva Paolo VI, Papa che tanto stimava Vittorio Bachelet, “i nostri laici fanno da ponte”. È questa la dinamica che sperimentano i credenti che si pongono a servizio del proprio tempo: la condizione di una continua “tensione”, un continuo inarcamento tra contesti, esperienze, spinte spesso tra loro contrapposte.

Quali sentieri dobbiamo percorrere perché si realizzi quella Chiesa in uscita auspicata da Papa Francesco?

«“La forza della fraternità, che l’adorazione di Dio in spirito e verità genera fra gli umani, è la nuova frontiera del cristianesimo”. Queste sono le parole di Papa Francesco. In un tempo segnato da divisioni e nuovi conflitti, il Papa ci chiede di puntare sulla “forza rinnovatrice della misericordia”, di scegliere con decisione la “rivoluzione della carità e del servizio”. L’indicazione di Papa Francesco è molto chiara e traccia una rotta impegnativa ed entusiasmante per la Chiesa del terzo millennio. Non dobbiamo limitarci ad analizzare le difficoltà del nostro tempo, ma a lavorare per tradurle in slancio creativo capace di trasformare la realtà.  La strada verso la nuova frontiera che abbiamo davanti a noi si compone allora di diversi sentieri, che si intrecciano tra loro. Il sentiero della fraternità interseca quello della missionarietà, “che ci provoca a uscire dagli spazi protetti dei nostri percorsi abituali, per condividere con ogni persona la gioia di fare esperienza dell’amore di Dio”. È il momento, come AC, di spingerci verso una “nuova frontiera”. Una nuova frontiera significa farsi promotori di fraternità dentro il nostro tempo. Essere solidali con i più lontani, i più poveri. Tessere alleanze, perseguire il bene comune, anche e oltre la sfera associativa.

Quali passi si devono compiere per acquisire uno stile di vita sinodale e a misura di tutti?

«In primo luogo dobbiamo chiarirci cosa intendiamo per sinodalità. Sinodalità è camminare insieme tra persone che hanno un passo diverso e che vengono da posti diversi. È l’idea di un’associazione che cammina con passi diversi in relazione al territorio in cui si è inseriti, passi diversi ma verso una stessa direzione, la direzione della nostra Chiesa. Sinodalità equivale a corresponsabilità, trasversale e verticale. È la corresponsabilità che ci educa e si traduce in sinodalità. Essere strumento di sinodalità è essere capaci di collaborare con tutte le altre realtà ecclesiali. La nostra è un’associazione di laici corresponsabili con una missione che si svolge nel mondo, facendoci elementi di coagulo più che di divisione. Dobbiamo spendere questa capacità facendoci prossimo, cioè accorciando le distanze con le persone con tutte le loro esigenze. Vedere, avvicinarsi, chinarsi e mettersi sulle spalle il prossimo, questi verbi devono guidare il nostro percorso. Dobbiamo metterci in ascolto delle persone che ci vengono affidate, altrimenti si rischia di dare delle risposte a domande che nessuno ha posto. Farsi prossimo è vedere la vita e chinarsi su di essa, questo è essere a misura di tutti».

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