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Pubblicato il 5 Novembre 2022 | di Redazione

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A bassa intensità

Il 29 Luglio Alika Ogorchukwu, nigeriano di 39 anni è stato aggredito e ucciso a colpi di stampella, la sua, nel pieno centro di Civitanova Marche.

C’è un fatto, importante, oltre la violenza in sé: nonostante fossero numerosi i testimoni presenti quando l’uomo di origine salernitana ha ucciso Alika,  tutti hanno raccontato la dinamica dei fatti,  ma nessuno di loro è intervenuto per fermarlo; anzi, sono stati girati diversi filmati in cui si vede l’aggressore infierire sull’uomo già a terra. Una tale reazione di chi era intorno, immobile, ad osservare o a filmare, ha suscitato indignazione e rabbia; vi è infatti stato di certo almeno un momento in cui ognuno di noi leggendo di questa aggressione si sia chiesto perché anziché filmare con il proprio telefonino nessuno sia intervenuto per fermare l’aggressore.

Come provare a fare, partendo da questi eventi tragici, un ragionamento più ampio e capire se davvero il nostro disappunto e la nostra indignazione abbiano davvero senso, o almeno se essi mettono in ombra altre possibili letture? Già nel 1964 a New York Catherine Susan Genovese venne brutalmente assassinata sotto gli occhi di 38 persone e nessuno mosse un dito se non per le forze dell’ordine. Il fatto suscitò tanto scalpore che due psicologi, Latanè e Darley decisero di studiare questo fenomeno in laboratorio. Emerse sin da allora  che la presenza intorno a noi di altre persone è in grado di alterare la percezione di quello che sta accadendo, anche in modo decisivo. Insomma restiamo a guardare perché nessuno reagisce, pensando che non ci sia una reale emergenza, mettendo in atto un effetto “spettatore”. La distorsione di quello che percepiamo è stata chiamata “apatia degli astanti”. Più di recente, nel gennaio 2015 le scene riprese e fotografate da decine di testimoni e anche da un redattore fuggito sul tetto hanno permesso di ricostruire la dinamica dell’attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi che fece ben dodici vittime.

In questi ed altri casi, sino al nostro di Civitanova Marche, è vero, nessuno si è mosso, e questo ci indigna; ma perché non pensare che ci possano essere motivazioni varie che spingono a non muoverci e non fermare un atto di violenza, limitandosi solo a darne testimonianza? La paura, può essere una prima ed umana motivazione, essere bloccati dalla paura, e quando capisci che sta davvero accadendo il peggio scegli di scappare e chiedere aiuto, o resti immobile testimone con in mano uno strumento tecnologico. Certo, come  nel caso di Civitanova, ci sono state poi delle riprese con i cellulari; ma perché inorridirsi dei filmati fatti e non concentrarsi sull’intenzione con cui il video sia stato girato? Tutti hanno agito per mostrare agli amici un video violento? O per semplice voyerismo?

Lettura è troppo semplice, non riesco a pensare che l’umanità di fronte alla violenza, al male, sia capace solo di guardare con distacco.

Occorre quindi provare a spostarsi invece su un altro piano e ipotizzare che possano esistere intenzioni diverse, almeno tante quanti sono i filmati recuperati, per cui si sceglie di non intervenire e di riprendere quello che sta accadendo. Una motivazione che porti a reagire ad una scena di violenza riprendendola potrebbe essere quella di esorcizzare il male, servirsi del cellulare come atto di difesa e scudo tra noi e la violenza stessa, per farne così qualcosa di diverso e lontano da noi. Ancora, un’altra intenzione, ad esempio, potrebbe essere quella di utilizzare la ripresa video per lasciare una traccia dell’aggressione, che diventa testimonianza di come i fatti siano avvenuti, una forma di fermare il tempo e l’evento così che questi possa divenire patrimonio di molti.

Anche in un passato non ancora digitale  immagini e video sono stati utilizzati per consegnare gli eventi alla storia, rintracciare gli aggressori, non dimenticare le vittime, documentare atti di violenza, creare in sintesi memoria civile. Basti pensare allo scatto di Letizia Battaglia a Sergio Mattarella che soccorre il fratello Piersanti. La fotografa consegnò alla Storia, ed alla memoria di noi tutti, il tragico e ultimo istante di vita del politico ucciso dalla mafia, facendone un monumento che ancora oggi sconvolge ed indigna.

Questa, come altre immagini o video, rappresentano e raccontano la storia e raccontano quello che siamo e la strada che stiamo percorrendo. Il caso di Civitanova  svela una società che ha ancora paura ad accettare le diversità, che rifugge dalla banalità del male secondo Hannah Arendt, ma che nello stesso tempo in qualche modo reagisce attraverso l’obiettivo di uno smartphone.

Prima di chiederci perché nessuno sia intervenuto, dovremmo chiederci se fosse stato meglio che  le immagini e i video non fossero stati colti lasciando la violenza in penombra.

E dovremmo chiederci perché e quando siamo diventati così intolleranti e così poco coraggiosi da farci prendere dalla paura a tal punto da pensare che l’unico modo possibile per fermare una società sempre più indifferente sia quello di intervenire a bassa intensità.

Intervenire a bassa intensità, importante, certo, ma ben poco per costruire una società inclusiva e solidale.

 

Paola Gurrieri

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"Insieme" esce col n° 0 l'8 dicembre del 1984. Da allora la redazione è stata la "casa di formazione" per tanti giovani che hanno collaborato con passione ed impegno.



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