Pubblicato il 22 Dicembre 2022 | di Giuseppe La Placa, Vescovo
0L’eternità nel tempo
La luce di Cristo vuole illuminare la notte del mondo mediante il nostro essere-luce, mediante la nostra testimonianza. È uno dei passaggi conclusivi della Catechesi che il vescovo monsignor Giuseppe La Placa ha dettato in occasione dell’Avvento. Sono parole intrise di speranza che richiamano anche all’impegno di ciascuno di noi. L’invito è quello di tenere «lo sguardo fisso in Gesù, per nutrirci della sua presenza, per rimanere in Lui, vivere questa relazione con un amore che ci salva, con un Dio che ci viene incontro mentre lo attendiamo. Solo allora – conclude il vescovo – la speranza che è in noi, il nostro saperci amati qualunque cosa possa accadere, diviene istanza d’amore capace di trasfigurare il presente per aprirlo all’eternità».
Attesa, speranza, impegno, vigilanza, prossimità sono alcuni dei concetti su cui il vescovo ha incardinato la sua Catechesi. Un percorso per vivere bene l’Avvento ma anche per accogliere la «luce del mondo» che ha illuminato la notte di Betlemme.
L’Avvento, ci ha ricordato monsignor La Placa, è sì il tempo dell’attesa ma è anche il tempo nel quale possiamo «nutrire» la speranza. «Oggi – ha sottolineato – è molto difficile parlare di speranza, dare ragioni per sperare, eppure questo è il compito del cristiano perché la mancanza di speranza rende l’uomo assente, irremediabilmente estraneo al tempo presente». E più avanti: «Gli atteggiamenti interiori che ci vengono suggeriti dalla Parola di Dio sono quelli che devono accompagnare tutta la vita cristiana: il senso dell’attesa, la fiduciosa speranza, l’impegno perseverante».
Impegno sì ma anche «fiduciosa speranza» e vigilanza. Ma cosa vuol dire essere vigilanti? A cosa corrisponde la vigilanza? «Essere vigilanti – ha spiegato il vescovo – significa soprattutto svegliarsi, scuotersi dal torpore spirituale, prendere coscienza della propria realtà, di essere debole e peccatore». La vigilanza allora «corrisponde alla conversione». Vigilare significa anche «stare svegli, stare con gli occhi aperti, fare attenzione». Vegliare «può essere un esercizio faticoso ma è un esercizio generato e sostenuto da una speranza salda: c’è qualcuno che giunge, qualcuno che è alla porta; qualcuno che amato, invocato, ardentemente desiderato, sta per venire. Non è un caso – ha esplicitato monsignor La Placa – che sanno vegliare meglio di tutti le sentinelle e gli amanti».
Nella Catechesi, il vescovo quindi indica alcuni comportamenti concreti nei quali possiamo esprimere questo atteggiamento di vigilanza. «Quando un genitore è vigilante? Quando cerca di restare fedele alla propria vocazione e al proprio compito di educare i propri figli nel nome di Gesù. E il cristiano impegnato nell’attività politica, civile o sociale, quando vive vigilante? Quando resta fedele alla sua vocazione di uomo e di cittadino, chiamato a interessarsi più del bene comune che del proprio tornaconto, più del vantaggio e del progresso dell’intera società che non della propria particolare cerchia di amici e di clienti. Un insegnante vive vigilando quando resta fedele alla propria missione di educatore, rispettoso della libertà di coscienza dei giovani affidati al suo insegnamento, senza diventare, o pretendere di diventare, padrone delle coscienze o dell’intelligenza altrui, senza plagiare nessuno attraverso le mode o le ideologie, considerandosi non possessore della verità, bensì tramite, strumento attraverso il quale la verità può raggiungere la coscienza e l’intelligenza dei suoi alunni. E i ragazzi e i giovani studenti, quando vivono vigilanti? Quando restano fedeli al loro importante dovere di prepararsi seriamente, per essere un domani adulti e cittadini responsabili e operosi, preparati ad affrontare i problemi della vita ove saranno chiamati a operare».
Ma c’è anche un altro aspetto, più universale della vigilanza, che il vescovo ha voluto porre all’attenzione nella sua Catechesi sull’Avvento: «La vigilanza è anche uno stile di prossimità, di testimonianza del Vangelo nella prossimità». Ed è quello che «Papa Francesco ci chiede quando parla di Chiesa in uscita, di periferie esistenziali da abbracciare nello stile dell’umiltà, della mitezza, della dolcezza della condivisione». L’Avvento è quindi il tempo «per scuoterci dalle nostre abitudini, dalla mediocrità; per risvegliare il nostro spirito, la nostra solidarietà; per ravvivare la luce della fede, l’ardore dell’amore e l’entusiasmo della speranza. In una parola, per alimentare la nostra infinita nostalgia di Dio». Avvento è quindi «imparare a vivere con le lampade accese, con i vasi pieni di olio, in preghiera e in veglia, mettendo a frutto i talenti ricevuti e portando a compimento i compiti affidatici di andare dove c’è bisogno di amare, di servire, di farci prossimo, di condividere».
In questo possiamo farci aiutare da San Giovanni Battista mutuando tre atteggiamenti: «abitare il silenzio, vestirsi di umiltà, fissarsi in Gesù».
Come abitare il silenzio? «In un mondo – ci ricorda il vescovo – che vuole stordirsi a tutti i costi, quanto bisogno abbiamo di creare spazi di silenzio attorno a noi e nel profondo di noi stessi, dove fare abitare Dio. E allora perché, in questo tempo forte dell’Avvento, non accogliamo la “sfida del silenzio”? Perché non proviamo a trovare dieci minuti al giorno per pregare, pensare, meditare. Da dedicare a noi stessi e a Dio?»
L’umiltà è la strada maestra, «la via semplice che – ci suggerisce la Catechesi di monsignor La Placa – siamo chiamati a percorrere per conformarci a Cristo. E l’umiltà che ci insegna Gesù è quella del servizio e dell’amore gratuito. L’umiltà è disponibilità a servire i fratelli. È l’espressione più alta della gratuità. In questo tempo di Avvento, potremmo riscoprire la bellezza di compiere un gesto concreto di carità, di impiegare un po’ di tempo nel servizio gratuito a qualche fratello che bussa alla porta del nostro cuore».
Come fissarsi in Gesù? C’è un solo modo. «Non si può vedere Dio – sono sempre insegnamenti del vescovo – come si vede una pubblicità luminosa, in maniera esteriore, visibile, senza una vita interiore. Possiamo vedere Dio solo divenendo noi stessi simili a Dio. Si può vedere Dio solo cominciando a distogliere lo sguardo da ciò che si vede per rivolgerlo all’invisibile. Anche a noi non può essere indicata altra strada che conduce a Dio, se non quella di smettere di ricercare certezze al di fuori di noi e ricominciare e rivolgere lo sguardo all’invisibile, e trovare così realmente il Signore, che regge e conserva la nostra vita».